A che punto è la notte delle riforme? Primi bilanci, ora che della legislatura il tempo rimanente è inferiore a quello già trascorso dal 13 ottobre 2022, quando essa è nata.
Il governo aveva posto tre grandi questioni per rinnovare la Repubblica e accontentare le preferenze istituzionali di ciascuna delle tre componenti la maggioranza di centrodestra.
In primo luogo l’elezione del presidente del Consiglio da parte del popolo, “la madre di tutte le riforme”, come la battezzò Giorgia Meloni, cioè la proposta della destra storicamente presidenzialista.
Poi l’autonomia differenziata per le regioni a statuto ordinario, cara alla Lega e alla sua tradizione federalista. A completamento dello Stato più forte e insieme più decentrato, una giustizia più giusta, secondo il volere da sempre garantista di Forza Italia.
A oggi, delle tre riforme prospettate, l’unica arrivata sulla Gazzetta Ufficiale il 13 luglio 2024 -anche perché frutto di una più spedita legge ordinaria rispetto alle altre due riforme di più complessa natura costituzionale-, è quella sull’autonomia.
Ma il traguardo raggiunto per prima non ha portato fortuna, visto che la Corte Costituzionale ha radicalmente riscritto il testo-Calderoli approvato dalle Camere, di fatto svuotandolo. Un mese fa il governo ha approvato il disegno di legge delega per la definizione dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale), senza i quali l’autonomia non si può applicare. Un’altra lunga marcia l’attende in Parlamento.
Miglior sorte tocca alla riforma che pareva la più tortuosa: la separazione delle carriere dei magistrati (e altro) che procede tra le due Camere. Ma a Montecitorio, ingolfato dai decreti-legge del governo da convertire entro 60 giorni pena la decadenza, se ne riparlerà in autunno fra l’esultanza delle opposizioni. Che accusano la maggioranza d’essere “rimasta vittima” dei suoi stessi atti e di divisioni interne. Allo stesso destino settembrino è legato l’appena rinviato premierato (una sola delle quattro letture finora approvata).
Il testo avanza con difficoltà politiche poste dal centrosinistra e difficoltà tecniche nella sua stesura complicata, perché nelle intenzioni dell’esecutivo dovrebbe rafforzare la presidenza del Consiglio (elezione diretta) senza ledere le prerogative del Quirinale e del Parlamento.
Se le due riforme costituzionali appaiono impantanate, è sul viale del tramonto l’ipotesi, rilanciata dalla destra, di introdurre il terzo mandato consecutivo per i presidenti delle regioni. Con un emendamento leghista al Senato arriverà l’ultimo tentativo per consentire la ricandidatura di Luca Zaia in Veneto e di Vincenzo De Luca in Campania. Ma Forza Italia, in linea con una recente e demolitrice sentenza della Corte Costituzionale, ha ribadito il suo “no” e Fratelli d’Italia -ma anche la Lega- non vogliono spaccare la coalizione. Contrario pure il Pd e dunque mancano i voti per l’iniziativa bocciata in precedenza.
Ci sarebbe, infine, la riforma elettorale conseguente al premierato.
Naviga ancora in acque lontane.
(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova)