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Zelensky

Zelensky, Bolkestein, l’Ira di Biden e il futuro dell’Italia

L’intervento di Paolo Rubino

La giornata di giovedì per il governo italiano, in ambito europeo e internazionale, è stata commentata come una Caporetto.

Il mancato invito del nostro presidente del consiglio alla cena all’Eliseo con Zelensky ha colpito forte l’immaginario dell’opinione pubblica. Che poi sia mancato anche l’annunciato aperitivo risarcitorio tête-à-tête tra Giorgia Meloni e il presidente ucraino e ci si sia dovuti accontentare di patatine e coca cola come in una festa dell’asilo in compagnia di scolaretti spagnoli, rumeni, polacchi, olandesi e svedesi ha profondamente deluso tutti. In questo scenario Zelensky appare come Luigi XIV alla corte di Versailles dove un’aristocrazia evirata freme per la concessione di leccare il cucchiaino utilizzato dal re per il suo sorbetto, concessione riservata solo a quei nobili che si sono svenati per rimpinguare le casse reali con tasse e donazioni. Le casse del re, si sa, erano le casse dello Stato, ma pure le proprie personali per un signore che, pur non avendolo mai esplicitamente detto, tuttavia certamente lo pensava: L’état, c’est moi!

Proprio come Zelensky, nell’Europa contemporanea, sembra aver convinto tutti che la democrazia è lui. E, quindi, bisogna dargli missili, aerei da combattimento, sofisticati carri armati, e danaro, per poter aspirare a baciargli la mano. L’Italia lesina e, perciò, come un meschino barone di provincia spiantato è tenuta ai margini della grande festa a Bruxelles, la contemporanea Versailles degli europei.

Non solo, proprio come un meschino barone di Guascogna frondista nella Francia dell’assolutismo sovrano, l’Italia fa anche le bizze: non esegue la direttiva Bolkestein sulle concessioni balneari; chiede la revisione della normativa UE per l’accoglimento dei migranti; invoca un fondo comune per il sostegno alle politiche industriali europee; frequenta altri frondisti ai margini dell’Unione. Perfino, non lascia al Signore della democrazia la libera tribuna al festival di Sanremo e qui siamo davvero al grande affronto.

Il complesso di inferiorità nazionale è, infine, certificato dalla frase “non siamo servi di nessuno” topos di chi, al contrario, è endemicamente servo. Ora magari si spera in una dichiarazione di qualche ultra ottantacinquenne maître à penser, meglio se ex ministro o ex giudice costituzionale, che dica che il nostro attuale presidente del consiglio è politico saggio, prudente e visionario, un grande statista insomma. Uno statement che allevi e faccia dimenticare la presunta umiliazione subita a Bruxelles.

Poco importa ai commentatori italiani, e all’opinione pubblica, chiedersi se orientamenti e scelte del governo perseguano l’interesse nazionale. Bandire le aste per le concessioni balneari va nella direzione del rafforzamento dell’industria dell’accoglienza turistica, che pure è retoricamente ritenuta cruciale per il futuro dell’economia italiana? E qui intendiamo riferirci all’industria legale e non quella del lido di Ostia che si fatica a immaginare lesa da pubbliche aste. Provare a regolare i flussi di immigrazione è utile a proteggere i livelli salariali dei lavoratori nazionali? Su questo punto tanta retorica e pochi fatti.

Legittimo dunque pensare che l’immigrazione selvaggia serva a tenere bassi i salari, vero, benché indichiarabile, interesse della classe imprenditoriale europea. Fondi comuni europei a sostegno delle politiche industriali sono la pretesa di un governo straccione o l’unico realistico mezzo per competere con Stati Uniti e Cina? Sostenere senza limiti Zelensky equivale a una crociata in difesa della democrazia o, come le crociate storiche, è una contesa per appropriarsi di un vasto mercato di consumi e di una ricca produzione di pregiate materie prime? E, nel caso, qualcuno ha svolto un’analisi costi/benefici per l’economia italiana? Nulla di tutto ciò avviene in Italia e, nel frattempo, un governo che ha ricevuto vasto consenso elettorale soprattutto sulla base di una promessa di difesa dell’industria nazionale, di un ripristino dell’equità distributiva della ricchezza, di un sostanzioso recupero di efficienza nell’amministrazione della giustizia, di un rafforzamento della coesione nazionale, di una promozione della ripresa demografica si contraddice decretando ad esempio che il trasporto aereo debba essere svolto da imprenditori non nazionali; che i lavoratori dipendenti debbano pagare più tasse rispetto agli indipendenti; che la giustizia efficiente vada perseguita non mediante opportuna spesa per investimenti, ma con l’ennesima chimerica grande riforma; che si proceda ad un ulteriore fase di devolution a favore delle regioni di pezzi di amministrazione statale; che si persegua una riduzione complessiva del prelievo fiscale, soprattutto mediante la decontribuzione degli oneri sociali spostandone il carico sulle  generazioni future.

Le questioni che i commentatori dovrebbero porre all’attenzione della pubblica opinione sono queste contraddizioni senza la correzione delle quali è assai probabile che i consensi elettorali siano destinati rapidamente ad esaurirsi mettendo a repentaglio, ancora una volta, la continuità della gestione politica del paese. È questa discontinuità costante che rende precario il futuro della nazione ed a questa non porranno certamente rimedio agognate alchimie dell’assetto costituzionale inseguite da oltre quarant’anni oramai da generazioni di politici succedutisi al governo nazionale.

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