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Vi spiego stop and go di Trump su Ucraina, fisco, Musk e non solo

I perché degli ondeggiamenti di Trump sull'Ucraina. Gli obiettivi della Finanziaria di Trump. Il futuro di Musk. E non solo. Conversazione con Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano

 

Un Trump ondivago sul sostegno all’Ucraina ma che deve subire le pressioni dell’ala filo-Kyiv della sua Amministrazione. Una legge finanziaria in puro stile reaganiano ma che farà esplodere il deficit e avrà effetti regressivi sui ceti più deboli. E infine l’operazione America Party di Elon Musk che ha davvero poche chance di incidere sulla politica americana. Sono questi i temi affrontati in questa conversazione con Start Magazine da Vittorio Emanuele Parsi, analista e docente di Relazioni Internazionali nella Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Noi europei siamo molto disorientati sull’approccio di Trump alla guerra in Ucraina, tra stop and go sulle forniture di armi a Kyiv e telefonate con Putin che a volte sono affettuose e altre volte Trump ammette essere molto deludenti. Che politica ci dobbiamo aspettare a questo punto nei confronti del conflitto da parte degli Usa?

In realtà è difficile seguire le oscillazioni della politica di Trump sull’Ucraina. Il suo è un approccio molto ondivago, ben evidenziato dalla sospensione del 1° luglio delle forniture di aiuti militari, che poi sono ancora quelli deliberati dalla precedente amministrazione Biden, e dal capovolgimento di due giorni fa con la riattivazione delle consegne di armi molto importanti.

C’è una logica in tutto ciò?

È difficile intravederla in questo stop and go, ma ho un paio di impressioni. La prima è che Trump ha fatto delle concessioni ampie e immediate a Putin, prospettando un piano di pace con ampie cessioni territoriali alla Russia e l’esclusione dell’Ucraina dalla Nato, senza concederle alcuna garanzia securitaria. Pare peraltro che in questo baratto molto sbilanciato a favore di Mosca ci fosse anche la rimozione di Zelensky.

La Russia però non ha accettato, preferendo proseguire la guerra.

Tali concessioni non sono state infatti accolte da Putin, che probabilmente vi ha intravvisto un elemento di debolezza e le promesse di un disimpegno pieno degli Usa. Insomma quelle concessioni, anziché moderare Putin e convincerlo ad accettare una qualche forma di accordo partecipando attivamente e seriamente a dei negoziati di pace, lo hanno reso ancora più aggressivo nel convincimento che potesse sfruttare la debolezza del suo interlocutore per migliorare la situazione militare sul campo e negoziare da una posizione di maggiore forza.

Ma, a parte Trump, gli americani che pensano di questa guerra?

Qui ci sono alcuni dati interessanti per chi segue la politica americana. Negli odierni sondaggi è tornata a crescere la percentuale di cittadini, anche di orientamento repubblicano, favorevoli a un sostegno a Kyiv. Probabilmente ciò si deve a una certa irritazione nei confronti di Putin.

E il secondo punto che voleva rimarcare?

Il secondo aspetto che vorrei sottolineare è che le voci pro-ucraine anche all’interno dell’amministrazione Trump e del Partito Repubblicano sono tornate a farsi sentire. Penso in particolare ad alcuni importanti senatori, tra cui quelli della fondamentale Commissione Esteri: lo stesso Segretario di Stato Marco Rubio appare ora più filo-ucraino e meno critico nei confronti di Zelensky. C’è dunque una dialettica molto vivace all’interno della politica americana che peraltro è una costante della sua storia e in particolare delle relazioni tra chi è coinvolto nei processi decisionali.

Di qui dunque l’atteggiamento ondivago di Trump?

Direi di sì, aggiungendo che l’America è e resta un attore cruciale in questo conflitto ed è sempre possibile che essa si riattivi determinando significativi mutamenti negli equilibro della guerra.

In merito alla legge finanziaria appena approvata, ci può chiarire quali ne sono gli obiettivi chiave dal punto di vista dell’amministrazione Trump?

Per sintetizzare al massimo gli effetti di questa legge di bilancio evidenzierei due punti, il primo dei quali è la fiscalità. Qui Trump si è mosso in modo molto radicale nel solco di una tradizione conservatrice e repubblicana egemone a destra sin dagli anni Ottanta, da Reagan in poi. Sto parlando dell’idea di promuovere un crescita supply-side, con tagli alle tasse soprattutto ai redditi più alti, ma non tanto sul piano delle imposte sulle persone fisiche, che sono stati molto leggeri. Peraltro la legge rende permanenti i tagli varati dallo stesso Trump nel 2017 e che erano in scadenza.

Ma allora dove sta la rivoluzione fiscale trumpiana?

La vediamo nel taglio netto alla tassazione del capital gain e soprattutto nel fatto che si rende permanente la riduzione dal 35 al 21% della imposta sul reddito delle imprese. Il tutto è poi accompagnato da numerose deduzioni e detrazioni a favore soprattutto dei redditi altissimi e di quelli mediani, che poi rappresentano la fondamentale base elettorale trumpiana.

Altri aspetti di questa legge che ci vuole segnalare?

Ci sono tutta una serie di tagli alla spesa pubblica, ad esempio a programmi sociali come i famosi food stamps, ossia i contributi alle spese alimentati delle famiglie povere e a basso reddito. Ma poi c’è soprattutto il taglio pesantissimo al cosiddetto Medicaid, ossia al programma di sanità pubblica amministrato a livello statale i cui beneficiari erano ancora le famiglie a basso reddito e che aveva conosciuto una forte espansione sotto la presidenza Obama. Si trattava peraltro di un programma molto popolare anche tra i repubblicani, tanto che alcuni Stati conservatori che non vi avevano aderito furono costretti a farlo sulla scorta di iniziative popolari. Secondo alcune proiezioni i tagli a Medicaid appena approvati dovrebbero portare a una riduzione di almeno dieci milioni di beneficiari.

A quanto pare questa legge porterà a conseguenze devastanti sul deficit.

Proprio così. Le proiezioni che ho visto io, in particolare quelle dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, parlano di 3.400 miliardi di dollari di deficit aggiuntivo all’anno. Quindi ciò avrà effetti molto regressivi sulla redistribuzione del reddito e ad essere penalizzate saranno soprattutto le fasce meno abbienti. Addirittura il 10% più povero, dove sono molto rappresentate le minoranze come gli ispanici e i neri, subirà un calo del reddito tra il 5 e l’8% all’anno; viceversa a beneficiarne saranno i redditi altissimi e alcuni quintili di reddito mediano, il tutto secondo la filosofia reaganiana di liberare risorse per chi già le ha, favorendo gli investimenti produttivi. C’è infatti chi parla di una forte componente razzista di questa legge di bilancio.

Quali prospettive intravvede per il partito di Elon Musk? Pensa che questo partito riuscirà a penetrare nel tradizionale bipartitismo americano? 

Io sono abbastanza scettico sull’America Party. Da quel che si legge, Elon Musk ambisce a creare un partito che nelle elezioni di medio termine punta a conquistare qualche seggio alla Camera e al Senato al fine di diventarne l’ago della bilancia. Credo tuttavia che ciò sia poco realistico per diverse ragioni, la prima delle quali è lo stesso Musk.

Si spieghi meglio.

Musk è ormai una figura molto impopolare nel Paese, perché è un sudafricano dall’accento strano, è un globalista che fa affari con la Cina, e perché l’ambito naturale in cui potrebbe drenare voti sta in una destra che è totalmente controllata da Trump, che sta già mobilitando la sua potenza di fuoco contro il potenziale rivale.

Altri motivi che giustificano il suo scetticismo?

Un motivo cogente rimanda alla storia stessa degli Usa, del suo sistema elettorale e delle sue articolazioni istituzionali. Terzi partiti raramente riescono a crescere e svilupparsi in un simile quadro. Fanno eccezione solo quelli che hanno radici locali come il Partito Conservatore di New York o il Farmer-Labor Party del Wisconsin, che poi però per essere incisivi si alleano sempre con i due grandi partiti nazionali.

Non vede dunque margini per l’operazione di Musk?

Credo semmai che potrebbe danneggiare in qualche misura Trump ingaggiando e finanziando fortemente candidati che magari poi non vincono ma nei collegi finiscono per far perdere voti al Partito Repubblicano, favorendo così i rivali democratici.

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