È appena uscito in libreria il nuovo libro del noto storico ed economista Giulio Sapelli. Edito da Guerini e Associati, “Il grande ritorno. La nuova era di Trump” è un saggio sorprendente che penetra a fondo nelle radici del fenomeno Trump inquadrandolo nel più ampio contesto della storia americana. In questa intervista per Start Magazine, il già docente in vari atenei italiani in predicato di diventare premier nel 2018 prima che la coalizione gialloverde gli preferisse Giuseppe Conte ci offre alcuni succulenti assaggi della sua analisi non privi di spunti roventi come la convinzione di Sapelli che alla fine Trump annetterà davvero la Groenlandia e i retroscena della clamorosa uscita di Elon Musk dalla squadra di governo.
Che cosa ci dice il suo nuovo libro su Donald Trump che già non sappiamo?
Il mio libro sottolinea che il fenomeno Trump non è un caso sui generis ma è qualcosa che ricorre costantemente nella storia americana, pur presentandosi ogni volta sotto aspetti diversi. Sto parlando di quella che la sociologia definisce la divisione delle classi agiate, la cui prima manifestazione negli Usa appare in concomitanza con la guerra civile americana, che fu il primo grande conflitto in cui furono sterminati i civili e che ha lacerato il Paese.
Nel suo libro si enfatizza molto a tal proposito il ruolo dei partiti americani.
Certo, infatti Trump ha rivoluzionato il suo partito proprio come fece quello che a mio avviso fu il più grande presidente della storia contemporanea degli Usa, ossia Lyndon Johnson, con il Partito democratico. Johnson riuscì a trasformare radicalmente quello che allora era il partito del Ku Klux Klan, facendone il partito della cosiddetta Great Society, ossia quello che cominciò veramente a liberare le persone di colore.
Johnson però era bianco.
Naturalmente. Il mio libro infatti sottolinea come gli Usa siano sempre stati guidati da un’oligarchia bianca e protestante, i cosiddetti Wasp, i quali sono circondati da un insieme di tribù. Quando il leader di una di queste tribù riesce, con il denaro o con la guerra, a scalare le vette del potere, allora l’oligarchia lo elimina. Ad esempio Lindbergh, che era un nazista, fu fatto fuori attraverso il rapimento di sua figlia proprio quando stava per vincere le elezioni. Ne fu talmente indebolito da perdere quella competizione elettorale. Ma lo stesso destino, sebbene assai più tragico, fu riservato ai due fratelli Kennedy.
Allora va interpretata in questa chiave la rottura portata da Trump.
Sì, Trump segna una profondissima rottura all’interno dell’establishment repubblicano che è quella che esprime il cosiddetto popolo degli abissi. La sua autentica cifra è il rifiuto della cultura Woke e Trump rappresenta quella parte del popolo che si ribella alla dittatura del politicamente corretto e della racial theory.
Si spieghi meglio.
Trump incarna la ribellione dell’uomo bianco arrabbiato perché ha raggranellato sufficiente denaro per mandare sua figlia all’università ma è costretto ad assistere alla sua esclusione perché, in base al folle sistema delle quote, il suo posto è stato assegnato a un giovane esponente delle minoranze. Peraltro già un paio di volte hanno tentato di farlo fuori ed effettivamente io lo vedo in pericolo. Poi Trump naturalmente ci mette del suo con la sua verbosità prorompente e con mosse spericolate in politica estera l’ultima delle quali è stata proprio in questi giorni il togliere le armi all’Ucraina.
A tal proposito, questa decisione riflette la sola volontà di Trump o il consenso di tutta la sua amministrazione?
Penso che ci sia un ampio consenso all’interno della sua amministrazione sul fatto che dell’Ucraina debba occuparsene l’Europa o al massimo la Nato. Peraltro va ricordato che la Nato si è allargata molto ad Est e il suo cuore adesso è la Polonia. Inoltre anche sul fronte di Gaza l’unica soluzione possibile, sempre dal punto di vista americano, è che se ne faccia carico l’Europa con una sua forza di interposizione che si occupi di sconfiggere Hamas.
E invece, a proposito del confronto con la Cina, malgrado il primo mandato roboante e certe mosse del secondo, ora sembra che si vada verso un passo indietro. Mi riferisco agli accordi di Londra con cui gli Usa hanno accettato di eliminare le restrizioni all’export del software per i microchip.
Se prima si puntava al decoupling, ora l’obiettivo di Trump è arrivare a una sorta di semi-decoupling. Del resto solo i pazzi pensano che il commercio mondiale possa essere gestito con le restrizioni e soprattutto con i dazi. Il commercio mondiale è fatto dalle filiere globali di impresa.
Ma allora il Liberation Day? Erano solo fuochi d’artificio?
Dal mio punto di vista con i dazi Trump ha voluto solo sollevare una cortina fumogena con cui celare il suo vero obiettivo, che è la conquista della Groenlandia.
Mi sta dicendo che davvero Trump vi vuole piantare la bandiera a stelle e strisce?
Ne sono convinto, anche perché il mondo futuro sarà di chi dominerà l’Artico. Del resto nel 1870 l’America convinse la Russia a cederle l’Alaska, e secondo me la stessa cosa accadrà con la Danimarca.
Cosa mi dice invece sulla coppia più famosa d’America che è poi scoppiata, ossia Trump-Musk?
Era inevitabile, anche perché una cosa che si tende a non ricordare mai è la funzione della droga nella politica. E in America son tutti pieni di droga fino ai capelli.
Quindi, alla fine, a scoppiare non è stata la coppia ma il solo Musk.
Certamente, e a tal proposito mi lasci dire che il fenomeno Musk è stato molto gonfiato. D’altra parte, lanciare i razzi è una cosa molto semplice, il problema è farli atterrare nel punto giusto e, da questo punto di vista, le imprese di Musk sono del tutto fallimentari.