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Cesare Romiti

Vi racconto meriti e demeriti di Romiti in Fiat (e non solo)

Ascesa e declino di Cesare Romiti nell'approfondimento del giornalista e saggista Paolo Bricco (breve estratto di un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 19 agosto)

Nel 1974, nel pieno della crisi petrolifera che sta dissestando i conti del gruppo Fiat, Cuccia lo segnala come direttore centrale di finanza, amministrazione e controllo. Nel 1976 diventa amministratore delegato, insieme a Umberto Agnelli e a Carlo De Benedetti, che ha una posizione di preminenza fra i tre, ma che lascia l’incarico dopo cento giorni. Da allora, si verifica l’ascesa di Romiti in Fiat e nell’economia e nella società italiane.

Quattro anni dopo, la Fiat è nel caos. Nessuno riesce a fronteggiare l’anarchia e a ristabilire l’ordine negli impianti. Il 5 settembre 1980 l’azienda mette in cassintegrazione per diciotto mesi 24mila dipendenti. L’11 settembre annuncia 14.469 licenziamenti. A questa decisione – in una Fiat in cui Romiti ha in mano ogni leva strategica, gestionale e “disciplinare” – corrispondono lo sciopero e i picchettaggi ai cancelli. Il 26 settembre Enrico Berlinguer arriva a Torino per esprimere ai lavoratori l’appoggio del Partito Comunista. I giorni diventano folli. I sindacati non cedono. Non lo fa nemmeno l’azienda che, per voce di Romiti, definisce i licenziamenti essenziali per non fallire. Il 14 ottobre 1980 la marcia dei quarantamila porta in strada i quadri della Fiat e i dirigenti di Corso Marconi. La manifestazione è organizzata dal capo dei quadri aziendali, Luigi Arisio, e ha l’appoggio tecnico – nella prima linea manageriale – di Carlo Callieri e di Cesare Annibaldi. Romiti sovraintende all’operazione ed è pronto a trasformarla in risultato politico. Tre giorni dopo la marcia dei quarantamila, la dirigenza della Fiat trova – da una posizione di forza – un punto di equilibrio con i sindacati confederali, che riconoscono l’insostenibilità della situazione: conferma la cassintegrazione a zero ore per 22mila dipendenti, ma ritira i licenziamenti.

Nel 1988, dopo uno scontro di potere cruento, gli Agnelli rinunciano a nominare numero uno del gruppo Vittorio Ghidella. Ghidella è l’uomo della Fiat Uno. L’ultimo ingegnere ad avere costruito la leadership della Fiat sull’auto europea. Uscito Ghidella, Romiti è il dominus assoluto. Spesso prevale sugli Agnelli grazie al legame con Mediobanca, che lo colloca appena un gradino sotto l’Avvocato e comunque sopra il Dottor Umberto, ormai impegnato nello sviluppo delle finanziarie di famiglia. Romiti determina la strategia degli anni 90: la conglomerata che investe in altri settori rispetto all’auto. Una scelta che – indirizzando risorse verso i servizi, a scapito della manifattura – impedirà alla Fiat di effettuare gli imponenti cicli di investimenti industriali e tecnologici che, in un decennio così strategico, faranno invece le case automobilistiche tedesche e asiatiche.

La centralità di Cesare Romiti è sintetizzata dal valore della sua buonuscita che, fra soldi e partecipazioni, ammonta nel 1998 a 105 miliardi di lire per i 24 anni di attività e a 99 miliardi di lire per il patto di non concorrenza. Guida Gemina (una sua quota fa parte della liquidazione) che controlla Rizzoli Corriere della Sera (sarà presidente dal 1998 al 2004, diventando poi presidente onorario) e la società di costruzioni Impregilo. Nel 2005 entra nel patto di sindacato degli Aeroporti di Roma.

Poco alla volta Romiti perde presa sul capitalismo italiano. La sua famiglia – oltre a lui, i due figli Maurizio e Piergiorgio – è estromessa prima da Gemina, poi da Impregilo e quindi da Aeroporti di Roma. Il più importante manager industriale italiano, dunque, non ce la farà a trasformarsi in imprenditore.

 

 

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