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Conte Mattarella

Vi racconto lo stile moroteo di Mattarella

Mosse, parole, foto e silenzi di Sergio Mattarella analizzati dal notista politico Francesco Damato.

 

Sospetto che Sergio Mattarella, di famiglia notoriamente morotea quali furono il padre Bernardo e il fratello Pier Santi, abbia ereditato da Aldo Moro anche la predilezione per le foto. Dalle quali spesso lo statista democristiano così barbaramente ucciso nel 1978 dalle brigate rosse si lasciava rappresentare più che dai discorsi, dalle interviste o dalle note affidate ai suoi collaboratori.

Mattarella, da qualche settimana entrato nelle perfide allusioni di costituzionalisti, politologi, editorialisti e retroscenisti spiazzati dalla forte decisione da lui presa, al termine di una lunga, ambigua e inconcludente crisi di governo, di mandare a Palazzo Chigi Mario Draghi per una soluzione che fosse anche una svolta, al punto in cui erano arrivati i rapporti fra i partiti, ha voluto vaccinarsi nel modo clamorosamente più semplice, ordinario e al tempo stesso sorprendente. Si è presentato all’ospedale Spallanzani di Roma, ha atteso pazientemente il suo turno assieme agli altri e se n’è andato senza scomodare nessuno.

Quest’uomo, questo presidente della Repubblica sarebbe -pensate un po’- lo stesso che secondo Gustavo Zagbrebelsky, non certo l’ultimo costituzionalista fermato per strada a commentarne le scelte, avrebbe fatto calare “la democrazia dall’alto”, anziché farla salire “dal basso”, facendo fare il governo a Draghi. Sarebbe il presidente al quale, secondo il politologo Piero Ignazi su Domani, l’ancora segretario del Pd Nicola Zingaretti avrebbe dovuto dire alto e forte il suo no alla rimozione di Giuseppe Conte. Che sarebbe pertanto avvenuta in modo un po’ troppo sbrigativo, se non autoritario. Sarebbe il presidente, secondo l’ultima vignetta del Fatto Quotidiano, che avrebbe promosso Draghi a “salvatore della Patria” senza prima verificare il gradimento degli italiani, evidentemente mandandoli alle urne con le mascherine. Sarebbe magari anche il presidente rinfrancato dalla chiamata di un generale di Corpo d’Armata alla guida della lotta al Covid, con le vaccinazioni e tutto il resto.

Ci vuole della fantasia, oltre che della disinvoltura, per travestire il prossimo così. E uso il travestimento anch’esso pensando a Moro e a ciò ch’egli disse alla delegazione della sua ex corrente dorotea, della Dc, che era andata a casa a informarlo nel 1971 della decisione presa di candidare al Quirinale, fallita la corsa di Amintore Fanfani, il senatore Giovanni Leone anziché lui, in qualche modo danneggiato politicamente dallo scontato appoggio che avrebbe ricevuto dai comunisti. “Mi avete messo addosso un abito che non è il mio”, rispose laconicamente Moro. Qualche giorno prima in Transatlantico, alla Camera, proprio il comunista Giorgio Amendola aveva dichiarato: “In tanti democristiani sono venuti o hanno mandato a chiedere i nostri voti: tutti, fuorché Moro”.

Ebbene, di Moro estromesso dagli amici dorotei da Palazzo Chigi dopo le elezioni ordinarie del 1968, pur chiusesi con guadagni per la Dc dopo quattro anni e mezzo di ininterrotta alleanza di governo col Psi di Pietro Nenni, tutti si chiedevano in quell’estate se e come avrebbe reagito all’offensiva dei colleghi di partito.

Incaricati dai nostri rispettivi giornali, Paese sera e Momento sera, di seguire Moro nel suo ritiro di Terracina per carpirgli qualche proposito, vedere con chi si incontrasse e capire cosa bollisse nella pentola del Consiglio Nazionale scudocrociato, convocato per l’autunno dopo la formazione del secondo governo “balneare” di Giovanni Leone, Guido Quaranta e io rimanemmo sorpresi dalla vacanza ordinarissima dell’ex presidente del Consiglio. Che ogni mattina raggiungeva a piedi la famiglia sulla spiaggia vestito di tutto punto, in abito e cravatta, giocava con le bambine, sedeva sulla sdraio e passeggiava ogni tanto sul lungomare, seguito a piedi dalla scorta col fedelissimo Leonardi. Al quale non riuscimmo a strappare né un consenso ad avvicinarlo né una mezza parola di risposta alle nostre domande sulle abitudini del presidente.

Alla fine dovemmo tornarcene a Roma senza uno straccio di notizia e riferire ai nostri direttori che Moro se ne stava tranquillissimo con la famiglia, lasciandoci liberi solo di interpretare i suoi silenzi. Concorrenti ma anche amici, ci scambiammo le reazioni dei nostri giornali, ugualmente incredule. Intervennero in nostro soccorso dopo qualche giorno le foto di un reporter su Moro a Terracina, solo e sfidante il caldo con i suoi abiti. Ce ne fu anche una con lui in accappatoio accanto alla moglie: posa che c’era sfuggita, o cui Moro s’era concesso solo dopo non averci più visti a distanza, diavolo di un uomo.

Seppi che ebbe migliore fortuna di noi dopo qualche settimana Francesco Cossiga. Dal quale Moro si lasciò accompagnare in qualche passeggiata sul lungomare anticipandogli la decisione di uscire dalla corrente dorotea per formarne una tutta sua e passare all’opposizione interna del partito, dove aumentavano le cose su cui discutere: la contestazione giovanile, la rivolta comunista di Praga repressa dai carri armati sovietici, l’autunno sindacale.

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