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Vi racconto le convergenze parallele tra Grillo e Renzi

Che cosa unisce di fatto, a sorpresa, Beppe Grillo e Matteo Renzi. I Graffi di Damato

 

In una intervista al Corriere della Sera concessa, forse non a caso, mentre Beppe Grillo lanciava dalla sua foresta elettronica un appello contro le elezioni anticipate per evitare la vittoria dei “barbari” di turno, che sarebbero naturalmente i leghisti di Matteo Salvini dopo avere assunto l’iniziativa della crisi di governo, l’ex segretario del Pd ed ex presidente del Consiglio Matteo Renzi ha lanciato la proposta di un esecutivo “istituzionale” per evitare, appunto, il ricorso al voto in ottobre.

Le elezioni in autunno – va detto subito – offrirebbero al segretario attuale del Pd Nicola Zingaretti, non a caso favorevole, l’occasione di fare lui le liste e cambiare i gruppi parlamentari piddini, dove la presenza dei renziani è oggi ancora consistente per le candidature gestite la volta scorsa proprio dall’ex segretario.

Renzi nella sua sortita mediatica – peraltro affidata ad una brava e puntuta giornalista del Corriere, Maria Teresa Meli, che non ha mai nascosto onestamente le sue simpatie politiche per l’ex segretario del Pd – non ha nascosto il timore, l’impressione e quant’altro di una epurazione dei suoi amici. Egli ha infatti sottolineato le polemiche subite ricorrentemente ad opera della nuova dirigenza del partito, ma ha cercato di dare spiegazioni più nobili e istituzionali alla oggettiva sponda che ha fornito a Grillo.

In particolare, Renzi ha reclamato come urgente un governo “istituzionale”, da affidare – bontà sua – non al presidente uscente del Consiglio Giuseppe Conte, per quanto forse questi possa pensarci, allo scopo di garantire con la manovra finanziaria collegata al bilancio lo scatto automatico dell’aumento dell’Iva e di permettere alla Camera l’approvazione definitiva, con l’ultimo passaggio parlamentare, della riforma che riduce di molto il numero dei deputati e dei senatori: da 630 a 400, rispettivamente, e da 315 a 200.

Questa riforma, che i grillini avvertono come molto popolare, accusando Salvini di averla voluta boicottare con la crisi, è considerata “demagogica” anche da Renzi, che si vanta di avere proposto ai suoi tempi una revisione costituzionale di ben più vasta portata ed efficacia, con competenze differenziate fra i due rami del Parlamento, e il diritto di fiduciare e sfiduciare il governo riconosciuto solo alla Camera. Ma egli riconosce che i pentastellati, avendo vinto le elezioni politiche l’anno scorso e disponendo nelle attuali aule parlamentari dei gruppi più consistenti, hanno ora il diritto di reclamare, con l’approvazione definitiva della loro riforma, votata peraltro anche dai leghisti nei passaggi già avvenuti fra Camera e Senato, il rispetto della volontà popolare espressa nelle urne del 4 marzo del 2018. Dove il Pd proprio di Renzi subì una cocente sconfitta.

Fra gli effetti politici di questa riforma – di cui i pentastellati hanno già chiesto di anticipare l’ultimo approdo nell’aula della Camera, prima che venga formalizzata la crisi innescata da Salvini con la discussione al Senato della mozione leghista di sfiducia a Conte- c’è il forte allungamento dei tempi per nuove e anticipate elezioni. Esso deriva dalle procedure referendarie e legislative, comprensive addirittura della revisione dei collegi, necessarie all’applicazione concreta della nuova, ridotta consistenza del Parlamento.

Le sortite quasi simultanee di Renzi e di Grillo, o viceversa, oltre e più ancora che a Zingaretti all’interno di un Pd ufficialmente già schieratosi per un rapido approccio alle urne, hanno naturalmente creato problemi mediatici e politici a Salvini.

L’aspetto mediatico, e d’immagine, delle difficoltà del leader leghista è, fra l’altro, nella prima pagina del Fatto Quotidiano, che rappresenta Salvini come chi “l’ha fatta grossa” con la presunta autorete della crisi, visto che le elezioni anticipate non sarebbero per niente scontate.

Il linguaggio peraltro usato dal leader leghista nei suoi comizi già elettorali, certo di vincere anche “da solo” e spintosi a puntare ai “pieni poteri”, ha alimentato una campagna politica e di stampa sul pericolo di una svolta autoritaria. In questo clima dì paura, anticipato dall’ex presidente del Senato ed ex magistrato Pietro Grasso con l’immagine dell’attuale aula di Palazzo Madama già “sorda e grigia” come quella della Camera sprezzantemente definita a suo tempo da Benito Mussolini, si è tuffato con giovanile energia, nonostante i suoi 95 anni di età, il fondatore della Repubblica di carta Eugenio Scalfari. Che ha indicato il rischio che esca dalle urne un “dittatore” sotto le spoglie di un “Presidente d’Italia”, capace peraltro nel nuovo Parlamento di scegliersi nel 2022 il nuovo capo dello Stato, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella.

L’aspetto più strettamente politico delle difficoltà in cui si trova Salvini dopo l’incrocio acrobatico fra Grillo e Renzi è nel monito rivolto al leader leghista dal Giornale della famiglia Berlusconi. Che, dopo avere messo insieme Grillo e Renzi in un vistoso fotomontaggio di prima pagina, ha avvertito Salvini, in un editoriale del direttore Alessandro Sallusti, che il Cavaliere potrebbe anche fornire una sponda ai due acrobati del no alle elezioni come ritorsione dopo la tentazione espressa chiaramente dal leader della Lega di correre al voto anticipato da solo, liquidando il centrodestra pur operante in sede locale. “Non si capisce perché Berlusconi e la Meloni -ha scritto Sallusti parlando un po’ troppo arbitrariamente anche della sorella dei Fratelli d’Italia, alla quale Salvini un’alleanza forse sarebbe disposto a offrirla anche prima del voto- dovrebbero prestarsi gratuitamente a togliere le castagne dal fuoco” di elezioni in pericolo al vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno uscente. Che intanto, oltre a dover forse rivedere gli scomodi e sofferti rapporti col Cavaliere, è tentato adesso anche dall’idea di rinunciare spontaneamente al Viminale per l’ingombro che la sua presenza, come protagonista della campagna elettorale, potrebbe costituire agli occhi e alla mente del presidente della Repubblica. E’ infatti a Mattarella che spetta l’ultima parola sul ricorso anticipato delle urne: se e su come, non solo quando, arrivarvi.

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