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Giorgetti

Vi racconto le altalene elettorali di leader e partiti

Storia e cronaca del saliscendi di leader e partiti politici fra storia e cronaca

I picchi, non gli uccelli che con i loro becchi duri riescono a rompere la corteccia dell’albero, ma i picchi intesi come impennate, in particolare quelle dei partiti nelle loro competizioni elettorali producono a chi li consegue più problemi che altro. Quando sono troppo repentini i successi procurano vertigini e confermano il proverbio ricavato dal verso di un’opera burlesca del 1734 che dice: “Chi troppo in alto sal, cade sovente precipitevolissimevolmente”. Lo conferma il raffronto fatto da Anna Ghisleri fra un sondaggio appena effettuato con la sua Euromedia Research e i risultati elettorali precedenti a cominciare dal voto europeo del 2014, distante non più di sei anni. Durante i quali gli equilibri sono cambiati forse più profondamente di quanto non ci siamo accorti inseguendo le cronache giornaliere.

Quel 40,82 per cento di voti improvvisamente raccolto nelle elezioni europee del 2014 procurò a Matteo Renzi un’ebbrezza quasi fatale sia come segretario del Pd sia come presidente del Consiglio. Prima  egli perse il governo, nel 2016, sopravvalutando la propria forza sino a personalizzare il referendum confermativo sulla riforma costituzionale che si era orgogliosamente intestato. Poi perse l’unità del partito con la scissione cui spavaldamente sfidò i vari Bersani e D’Alema nel 2017, mentre altri gli consigliavano, anche dal Colle, di evitarla. Infine perse la segreteria del partito, nel 2018, facendolo uscire dalle urne per il rinnovo delle Camere col 18,76 per cento dei voti.

Ora Renzi è ridotto a giocare una sua personale partita, col movimento improvvisato l’anno scorso, annunciando un giorno sì e l’altro pure mosse da cavallo sulla scacchiera politica senza scollare la sua Italia Viva da percentuali più frequentemente sotto che sopra il 3 per cento dei voti nei sondaggi di ogni marca o targa.  Egli si è proposto di sorprendere critici ed avversari nelle elezioni regionali, suppletive e comunali del 20 e 21 settembre, nell’ambito delle quali ha scelto, per esempio in Puglia, o in Liguria, o a Sassari per la sostituzione di una senatrice grillina defunta, di contrapporsi alle scelte del Pd. Vedremo.

Un altro picco elettorale di grande clamore è stato quello dei grillini due anni fa, con quel 32,68 per cento di voti che, pur inferiore al 35,70 per cento del centrodestra uscito dalle urne a trazione  leghista, consentì ai pentastellati di realizzare un mezzo bingo politico alleandosi al governo con i leghisti di Matteo Salvini, e imponendo loro come presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che gli stessi grillini prima delle elezioni avevano valutato all’altezza solo di un buon ministro, l’ennesimo, della riforma burocratica o della pubblica amministrazione, nella lista del governo monocolore a 5 stelle depositata con grandissima euforia nelle mani del Segretario Generale del Quirinale.

Meno di un anno dopo, nelle elezioni europee del 2019, quel 32,68 per cento sarebbe già sceso al 17,07. E a tutto vantaggio di Salvini, salito nello stesso arco di tempo dal 17,35 al 34,33.

Ma anche a Salvini quel picco improvviso è stato non dico fatale  ma quasi, lasciandogli il margine di movimento lasciatogli dal fatto  che il centrodestra, dove “il capitano” è rientrato senza mai esserne uscito in sede locale, nel sondaggio della Ghisleri del 28 agosto di questo 2020 supera il cosiddetto centrosinistra e i grillini insieme.

Adesso comunque il leader leghista, sceso al 25,2 per cento dei voti, deve guardarsi nella coalizione da quel 14,3  raggiunto da Giorgia Meloni con i suoi fratelli d’Italia partendo dal 3,67 delle elezioni europee del 2014, in una progressione mai interrotta, diversamente dalla Lega, salita anch’essa dal solo 6,6 delle elezioni europee del 2014 ma alla fine costretta a scendere da quel punto troppo alto toccato nel 2019.

Quale insegnamento occorrerebbe trarre da questi dati l’ho un po’ anticipato con quel proverbio ricavato da un’opera buffa del lontano 1700. È pericoloso montarsi la testa con successi così troppo rapidamente conseguiti in un contesto politico a dir poco liquido, dove tutto cambia rapidamente da un giorno all’altro, e nello stesso arco di una giornata.

Invece vedo che tutti sfidano tutti, e tutto, in una gara infinita che toglie il fiato a ogni leader e partito: una gara nella quale c’è chi – si vedrà se più coraggiosamente o imprudentemente – all’interno dell’anomala maggioranza di governo creatasi l’anno scorso contro un Salvini forse troppo sopravvalutato, visto ciò che poi gli sarebbe successo, scommette sul superamento delle difficili elezioni regionali del mese prossimo, del referendum confermativo sui tagli ai seggi parlamentari, per quanto stia crescendo la voglia del no, e delle elezioni comunali della primavera del 2021. E tutto ciò per arrivare indenni, senza elezioni anticipate, al riparo del semestre  ultimo e bianco del mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, e poi all’elezione parlamentare del successore, nel 2022. E infine alla scadenza ordinaria della legislatura, nel 2023.

Mi chiedo se non ci sia troppa ambizione in questo tipo di scenario, o troppa avventatezza. Mi chiedo se i vari Zingaretti e Di Maio non stiano facendo come la Rosalina della filastrocca che baldanzosamente portava sulla testa la ricotta per venderla al mercato e realizzare progressivamente chissà quanti e quali guadagni in una fantasia interrotta dalla rovinosa caduta della cesta a terra.

 

 

Articolo pubblicato sul Dubbio

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