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Vi racconto la paranoia di Maduro in Venezuela

Viaggio al centro del regime di Maduro in Venezuela. Reportage da Caracas a cura di Estefano Tamburrini tratto dalla newsletter Appunti di Stefano Feltri

“Vietato usare i telefonini”, è la prima cosa che leggiamo in un cartello esposto nell’aeroporto “Simòn Bolìvar”. Non appena scesi dall’aereo, arriva il primo avvertimento. Bisogna obbedire, se si vuole entrare.

Le Forze dell’ordine dividono la fila tra venezuelani e stranieri. E gli stranieri aspettano almeno un’ora prima di entrare. Mi trovo in questo gruppo insieme alla mia compagna e nostro figlio di sei mesi.

Un soldato di poco più di vent’anni ci sorveglia, rammenta a tutti il divieto, con un fucile tra le braccia. Qualcuno ignora il monito e resta davanti allo schermo. Il giovane ufficiale ci richiama, dà un’occhiata agli schermi. L’ordine è quello di non far uscire nulla dall’aeroporto: vanno filtrate le comunicazioni.

Da qualche settimana, i militari controllano le singole chat delle persone. Non solo in aeroporto, ma anche nelle piazze in appositi posti di blocco. Se venissimo scoperti in possesso di messaggi contro il governo potremmo trovarci in difficoltà. Succede anche con foto, video o altro materiale.

Per evitare problemi, svuotiamo gli smartphone. Qualcuno è già stato arrestato. Si rischiano da 15 a 30 anni di reclusione secondo la Ley contra el odio approvata nel 2017 (ne ho parlato in un articolo precedente). Per gli agenti, quei momenti di tensione si alternano a lunghe ore di noia. A Maiquetìa la pista è vuota. C’era soltanto il nostro volo. La pista è vuota. L’aeroporto abbandonato.

OPERACION MORROCOY

I controlli procedono con lentezza. I funzionari della Policia Bolivariana interrogano uno a uno i passeggeri. Fanno più domande del previsto. Chiedono la professione. Evito di dire che sono giornalista, altrimenti è un problema. Decidono loro chi entra e chi no.

La chiamano “Operaciòn Morrocoy”, pensando alla specie di tartarughe tipiche del Paese. In Venezuela alle elezioni è prassi rallentare le procedure per controllare, filtrare e misurare l’elettorato. Succede con ogni fila, anche a quelle dei pensionati e dei poveri che ritirano gli aiuti alimentari.

Ruoli e divise fanno la differenza, in Venezuela. Quei giovani sanno che senza la revoluciòn, ora sarebbero altrove. Non lì. Non a rappresentare le istituzioni. Dopo il primo step, accediamo direttamente agli sportelli. Altri vengono lasciati in attesa. Non ci sono criteri. Passare o meno è una lotteria. C’è una attenzione particolare agli uomini adulti che viaggiano da soli. Alcuni vengono portati via per essere interrogati. Non tutti vengono ammessi.

Agli sportelli gli agenti ci fanno un secondo interrogatorio: dobbiamo mostrare anche il biglietto di ritorno. Ciascuno di noi deve guardare la lente di una telecamera, dettando il proprio numero di telefono. Poi facciamo l’impronta biometrica: pollice destro sul sensore. Schedatura completata.

CONTRO I SOCIAL

La stretta del regime di Nicolàs Maduro riguarda anche i social network, che il presidente del Venezuela ha definito “mezzi che diffondono odio, terrorismo, fanatismo”.

I brogli elettorali nelle contestate elezioni del 28 luglio, la repressione e le persecuzioni contro l’opposizione non sarebbero stati documentati senza i social. Per il Venezuela sono rimasti l’unico canale di comunicazione con il mondo esterno.

Maduro aveva minacciato di chiudere WhatsApp, poi ha sospeso X per una decina di giorni. Anche sul web non si naviga più liberamente: alcuni siti sono inaccessibili, come resultadosconvzla.com – dove l’opposizione ha pubblicato i risultati dell’elezione – e portali di notizie online.

Per consultarli  ho scaricato una Virtual private network (Vpn) cioè una rete privata virtuale. Le Vpn si usano per trasmettere dati in maniera sicura e anonima attraverso le reti pubbliche.  “Ogni volta che devo parlare di politica attivo il Vpn”, dice Alberto Mendoza, consulente elettorale dell’opposizione: “Il mio ruolo è prettamente organizzativo, non occorre che appaia. Meglio restare invisibili in un contesto come questo”.

A preoccupare il regime ci sono gli hacker di Anonymous, che hanno diffuso un elenco con i dati sensibili di ministri e militari. In ogni tweet c’era il link con l’ubicazione di ciascuno e l’invito “andateli a prendere”. Anonymous ha anche svuotato i conti del presidente del Consiglio nazionale elettorale (Cne) Elvis Amoroso e di altri funzionari vicini al regime. Maduro ha subito sospeso i suoi account su X e Tik Tok, definendo “immorale” la piattaforma cinese.

Le forze dell’ordine hanno arrestato circa duemila civili, ci sono stati una ventina di morti. Hanno colpito volontari, rappresentanti di lista, commercianti e lavoratori che avevano collaborato con le opposizioni.

Diverse fonti raccontano anche di un aumento delle tensioni a Miraflores. Soprattutto dopo la risoluzione approvata dall’Organizzazione degli Stati americani (Oas), che ha esortato Caracas a pubblicare “las actas”. Cioè, i verbali dell’elezione presidenziale. L’Oas chiede anche “il rispetto dei diritti umani, della volontà sovrana dell’elettorato venezuelano” oltre a “una verifica imparziale dei risultati, che garantisca trasparenza, credibilità e legittimità nel processo elettorale”.

Nel frattempo, la Comisión interamericana de derechos humanos (Cidh) e la Relatorìa especial para la libertad de expresiòn (Rele) hanno condannato le “pratiche di violenza istituzionale nell’ambito del processo elettorale in Venezuela”. Le organizzazioni esigono “la fine immediata della repressione”.

Anche organizzazioni come Amnesty, Observatorio venezolano de conflictividad social (Ovcs) e Centro para los defensores y la justicia (Cdj) si sono dette preoccupate “per l’aumento della violenza e la repressione”. Questo è  il “risultato dell’azione dei corpi di sicurezza dello Stato, di civili armati conosciuti come collettivi e di gruppi appartenenti al Sistema popolare di protezione per la pace”. Le Ong hanno fatto un appello alla “comunità internazionale” perché si monitori la situazione del Paese.

MA SI PARLA SOLO DI POLITICA

Dietro al silenzio tombale imposto dal regime si cela un incessante brusio di conversazioni sulla situazione politica attuale. Le persone non dicono nulla se intervistate. Nessuna registrazione, nessun virgolettato. Chi parla ha bisogno di un’unica garanzia: poter negare davanti a militari e poliziotti quanto detto tra civili qualche minuto prima. Ma a condizione di non lasciare traccia di quanto detto, tutti parlano di politica.

Per esempio, un commerciante mi dice “andava meglio all’epoca dell’industria petrolifera”. Ma l’industria del petrolio c’è ancora, sebbene non funzioni più come un tempo. Produceva di più in un’altra “epoca”: prima degli interventi governativi dei primi anni duemila.

Il commerciante però ricorda i licenziamenti di massa nel 2002 dalla statale Petroleos de Venezuela (Pdvsa) e gli espropri di sette anni dopo. Decisioni applicate d’impulso dall’ex-presidente Hugo Rafael Chavez. La vicenda ha coinvolto 100mila persone direttamente, con ricadute sull’intera società.

TUTTO COME PRIMA?

Gli Stati Uniti avrebbero proposto a Maduro un esilio dorato a patto che lasci il potere. Potrebbe andare in Panama, che ha già dato il nulla osta. Ma i rifugi più sicuri sono Ankara o l’Avana. Ma più giungono voci di questo genere, più il regime si arrocca al potere.

In campo ci sono anche le Nazioni unite, che offrono mediazione tra regime e opposizione. L’organizzazione è già in missione per documentare gli episodi di repressione e violenza politica. Sempre l’Onu, attraverso un comitato di esperti elettorali, ha sottolineato che l’autorità elettorale del Venezuela non ha rispettato i “requisiti basici di trasparenza e integrità” essenziali perché le elezioni siano credibili.

L’unico ponte disponibile tra regime e opposizione sono le cancellerie sudamericane. Brasile, Colombia e Messico. Cercano di ricordare a Caracas i comandamenti della sinistra latinoamericana: non si fugge alla volontà popolare, non si truccano i voti, non si reprime la dissidenza.

Ma il regime non è disposto ad accettare di aver perso. Molti degli esponenti temono dinanzi ai tribunali locali o alla Corte penale internazionale (Cpi).

Si parla semmai di nuove elezioni, ma a dicembre o l’anno prossimo. Il chavismo avrebbe la possibilità di riorganizzarsi, cambiare strategia e vincere. Ma non tutti i settori filogovernativi sono d’accordo.

Non lo è neppure l’opposizione. Alla Plataforma unitaria preoccupano l’ondata migratoria dei prossimi mesi e la perdita di fiducia nel voto. Non mancano neppure le posizioni più estreme. È il caso di alcuni expat, che ipotizzano un intervento militare nel Paese. Un’opzione poco plausibile, come ammettono loro stessi.  All’interno non ci sono più le energie: il Venezuela è smobilitato, la società è indebolita.

È vero che a Caracas c’è stata una grande mobilitazione il 17 agosto, ma si tratta di un episodio effimero. Il Paese è sorvegliato e ci sono le ronde in ogni quartiere. Soprattutto in quelli popolari. Il tempo passa. E tutto rimane come prima.

Nel prossimo articolo racconteremo il Paese visto da vicino. Una società sorvegliata, impaurita e stanca. Qui la povertà estrema è più diffusa di quanto non si pensi. Ci sposteremo da Caracas alla Costa oriental del lago, per capire cosa succede in Venezuela. A che punto è la crisi? Perché è crollata la produzione del greggio? Cosa dicono gli abitanti locali? Cosa resta delle città petroliere dopo l’ondata migratoria?

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