Sabato 8 luglio si conclude, col voto sulla fiducia al governo, la fase di avvio del nuovo parlamento ellenico uscito dalle elezioni del 25 giugno scorso che hanno registrato la conferma della vittoria del partito Nea Dimokratia, già ottenuto col primo round di 35 giorni prima, insufficiente a garantire a Kyriakos Mitsotakis la maggioranza parlamentare.
Fin qui le non notizie. La notizia vera del dibattito sulla fiducia è che, per la prima volta dopo undici anni ad alzarsi a parlare dopo le dichiarazioni programmatiche del presidente del Consiglio (Mitsotakis appunto) non è stato Alexis Tsipras, ma un grigio burocrate del partito, Sokratis Famellos, diventato nel frattempo presidente “transitorio”di Syriza dopo le inaspettate dimissioni di Alexis.
Trovo singolare, al limite segno di ingratitudine, la circostanza che solo il Foglio e il Manifesto abbiano dedicato qualche millimetro/colonna della loro prima pagina alla notizia delle dimissioni rassegnate senza preavviso e in solitudine da Alexis Tsipras giovedì 29 giugno, tre giorni dopo l’ultima sconfitta elettorale di Syriza. Quella di Tsipras è un pezzo della storia europea degli ultimi dieci anni almeno (e non è detto che sia un pezzo già da archiviare perché anche nell’uscita di scena, dopo tre giorni di isolamento “assoluto” si è dimostrato il grande attore e al tempo stesso il grande regista della propria carriera che abbiamo conosciuto).
Se parlo di ingratitudine dei media mi riferisco al fatto che per anni Tsipras ha offerto generosamente materiale, spunti e occasioni a uno star system, quello coltivato dal giornalismo politico, pletorico e sempre esposto al rischio di pestare acqua nel mortaio. Tsipras non è stato acqua, nè fresca né riscaldata, lo dico per averne seguito le gesta con una certa attenzione da almeno una decina d’anni, con curiosità e dapprima con qualche aspettativa, nel corso della sua ininterrotta campagna elettorale, dal trionfo elettorale del maggio 2012 quando Syriza aveva quadruplicato di voti e i seggi in Parlamento, con 52 seggi che ne avevano fatto il partito di “opposizione ufficiale” alla Nea Dimokratia di Antoni Samaras, sino alla definitiva affermazione del gennaio 2015 che con il 36% dei voti e 149 seggi, due meno della maggioranza assoluta, ne faceva nondimeno il più giovane presidente del Consiglio della storia quasi bicentenaria dello stato ellenico: grazie al sostegno, mai mancato nei successivi quattro anni e mezzo, di un piccolo partito ultranazionalista di destra, quello dei “Greci Indipendenti” di Panos Kamenos.
Milazzismo allo stato puro, per usare un termine che solo i più anziani conoscono. A quel punto qualsiasi aspettativa su Tsipras, almeno per me, era svanita: era chiaro che si trattava di un leader di puro conio populista che come tale non aveva nulla di utile da offrire a un Paese massacrato se non bersagli per la cosiddetta rabbia popolare.
In quei due anni e mezzo abbondanti il giovane emergente leader aveva distribuito innumerevoli dichiarazioni all’indirizzo di ogni possibile destinatario, centellinando parole pacate dal podio di un forum organizzato a Atene dall’Economist e urlando instacabilmente «go home kyria Merkel» nelle piazze affollate di potenziali elettori impazienti di sfasciare qualsiasi simbolo dell’odiata Troika o dei suoi asseriti complici locali. Senza mai, letteralmente mai, una frase che contenesse una pur modesta ma tangibile presa di posizione su un tema concreto: innumerevoli dichiarazioni su qualsiasi argomento, ma nessuna che alludesse neppure vagamente a scelte politiche, prese di posizione che rischiassero di inimicargli una frazione pur trascurabile dell’elettorato, al massimo adesione agli slogan più trendy. Di propositivo solo un oltranzista indiscriminato e ovviamente irrealizzabile rifiuto delle politiche imposte dall’Eurogruppo e dalla Bce per mantenere sotto controllo la voragine che si era aperta nei conti pubblici gradualmente a partire dall’ingresso della Grecia nell’Euro (e anche a causa di questo) ma che era stata “scoperta” solo anni dopo lo scoppio, nel settembre del 2008, della crisi finanziaria preparata negli anni precedenti dalla bolla dei subprime americani.
Nel frattempo “Alexis” si era trasformato in un personaggio in tutta Europa, al punto che nonostante il rifiuto categorico di tutte le politiche imposte dalla Troika (Imf, Bce e e Commissione Ue-Eurogruppo) o forse proprio grazie a questo rifiuto, in vista delle elezioni del parlamento europeo del maggio 2014, per iniziativa della giornalista italiana Barbara Spinelli, figlia di Altiero, uno dei padri nobili dell’europeismo del dopoguerra co-autore del Manifesto di Ventotene, era stata lanciata in Italia una “Lista Tsipras” che aveva portato a Strasburgo tre parlamentari, superando la non trascurabile soglia del 4%.
Nel punto più alto, almeno in termini spettacolari, della sua parabola, con una sfrontatezza tale da non suscitare neppure indignazione ma solo ammirato stupore, il 26 giugno del 2015, con modalità degne di un caudillo sudamericano indiceva, con una settimana di preavviso (il tempo materiale minimo per stampare le schede di votazione, dove il « NO » era stampato prima del « SI »), un referendum su un quesito letteralmente incomprensibile preceduto da un proclama dove si chiedeva al popolo greco se esso intendesse subire un “ultimatum ricattatorio che ci propone di accettare una severa e umiliante austerity senza fine e senza prospettive di ripresa” e invitava il popolo stesso a “rispondere in modo sovrano e con fierezza, come insegna la storia dei greci” aggiungendo che “al dispotismo e all’austerity persecutoria rispondiamo con democrazia, sangue freddo e determinazione”. Salvo, tre giorni prima della votazione, affermare che il « sí » non comportava automaticamente l’uscita della Grecia dall’euro.
Il « NO » reclamato da Tsipras il 5 luglio 2015 fu pronunciato, con l’invocata « fierezza », da una maggioranza superiore al 60%, ma ciò non impedì allo stesso Tsipras di precipitarsi nei giorni successivi a Bruxelle dove, dopo la « maratona negoziale » (un genere drammaturgico di cui da quelle parti sono maestri) il « fiero no » si trasformava in un composto « sì » a quattro anni della peggiore austerity che la Grecia avesse vissuto dopo il « governo tecnico » di Loukas Papadimos del 2011, con blocco delle disponibilità bancarie dei privati e con avanzi primari di bilancio del 4-5%.
Ma quel 5 luglio, per non perdersi quella che veniva considerata una giornata storica, accorse a Atene anche Beppe Grillo, e si parla del Grillo del 2015 che poteva permettersi di svillaneggiare chiunque ricevendo in cambio solo applausi e si preparava a invadere il Parlamento con i suoi adepti per aprirlo « come una scatoletta di tonno » come avvenne (apertura della scatoletta a parte) con le elezioni del marzo 2018.
Si arriva così alla famosa « kolotoumba » (capriola) di Tsipras, come fu subito battezzata. Ma non è il fatto che, dopo aver indetto e vinto un referendum incendiario che doveva portare la Grecia fuori dall’euro, Tsipras sia corso a Bruxelles per mettersi sotto la protezione di Jean-Claude Juncker, Angela Merkel e François Hollande con il decisivo sostegno, da oltre Atlantico, dell’amministrazione Obama, che deve stupire: in quel momento Tsipras – che non intendeva certo sacrificare una carriera politica promettente, non aveva alternative. Nei sei mesi precedenti aveva inscenato, anche questa volta con grande talento e col generoso sostegno dei media europei, una vera e propria guerra alle istituzioni di Bruxelles, lasciando spazio ai duelli tra Yanis Varoufakis e l’allora presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, un olandese che per cinque mesi di séguito si era esposto al dileggio che « Yanis » gli somministrava, declinato nelle forme più creative, compresa una lunga lettera su carta intestata del ministero dell’Economia ellenico dove spiegava con dovizie di dettagli le tecniche escogitate per affrontare il cronico problema dell’evasione fiscale: legioni di agenti reclutati tra i turisti che, armati di microcamere, nei mesi estivi avrebbero battuto taverne e luoghi vari di svago a pagamento per cogliere sul fatto chi non rilasciava lo scontrino fiscale). Aveva consentito che mentre i rappresentanti della Troika aspettavano i suoi delegati per un incontro già concordato a Bruxelles, questi ultimi si lasciassero sorprendere a gavazzare in un ristorante della capitale belga. Ma, dopo aver esaurito tutte le possibili provocazioni, a Tsipras non restava che cedere : una tattica che alla Grecia era costata , secondo calcoli dell’epoca, almeno 100 miliardi di euro in più, ma a Alexis aveva permesso di ripetere ai suoi elettori : « alla fine per salvare il Paese ho dovuto fare marcia indietro, ma avete visto che mi sono arreso solo dopo aver combattuto sino allo stremo ». Se poi fosse vero, almeno in parte, che Tsipras avesse inizialmente sopravvalutato la propria forza, se fosse vero confermerebbe solo il giudizio che seguirà.
Quel che ancora oggi giustifica ammirato stupore è il fatto che solo tre mesi dopo avere rinnegato nei fatti l’intera sua politica, Tsipras nel settembre 2015 sia riuscito a vincere ancora una volta le elezioni, anticipate necessariamente per liberarsi da quasi un terzo dei suoi parlamentari che avevano preso sul serio il programma sul quale erano stati eletti: in tutto, a settembre, otteneva 145 seggi, quattro in meno rispetto a gennaio, un’inezia. Dopo di che governava, al modo dei populisti, cioè avendo come unica stella polare il consenso dell’elettorato e rispettando scrupolosamente le indicazioni di chi lo aveva « salvato » dopo l’ultimo bluff: l’Ue, intesa come Commissione europea e come Francia e Germania (per conto dei quali ha spremuto senza pudore i contribuenti ellenici, ma lo ha fatto riuscendo a non modificarne le abitudini quotidiane), e, last but not least, l’America alla quale, sia pure con modalità imbarazzanti, ha portato in dono la fine di una trentennale controversia sulla denominazione dei territori settentrionale della Macedonia (già uno degli stati della federazione iugoslava) che aveva impedito l’ingresso di questi territori (oggi « Macedonia Settentrionale ») nella Nato. Un anno dopo un incendio che aveva messo a nudo lo stato di abbandono dei servizi antincendio e di quelli di soccorso procurando 104 morti rimasti intrappolati tra il fronte dell’incendio che scendeva dalle montagne, e il lungomare, in una zona di ville per il weekend, si erano tenute le elezioni: Syriza le aveva perse, ma conservando un elettorato del 35%, un risultato eccezionale dopo di quattro anni di malgoverno.
Tsipras è un populista « di sinistra », si distingue dal populista « di destra » perché mentre quest’ultimo solitamente unisce alla pretesa di dar voce alla volontà « del » popolo la velleità di perseguire il bene della nazione. Il primo galleggia nel fiume del progresso che scorre negli sconfinati argini della naturale solidarietà fra gli uomini, e questo lo dispensa dai costi politici che la pretesa di risolvere qualche concreto problema di un Paese sempre comportano. Ma quando si dice « populista » non si intende solo demagogo. Tsipras ha dimostrato nei suoi anni di essere non solo un grande tecnico del consenso ma anche del potere, in tutte le sue declinazioni: rapporti con le potenze protettrici, con i poteri interni a cominciare la sistema dei media ma non solo, grande creatività nel valorizzare qualsiasi crepa negli schieramenti avversari, come ha fatto negli anni del suo governo stringendo un tacito ma ferreo patto col predecessore di Mitsotakis sia alla presidenza di Nea Dimokratia sia al governo, Kostas Karamanlis. Spregiudicato oltre ogni immaginazione.
Tsipras è e resta un capo politico di assoluto talento, soprattutto in questa Europa dove la vita quotidiana dei cittadini è ammaestrata dalla opaca burocrazia di Bruxelles e il loro futuro è deciso altrove. Certo, un capo politico figlio di un medio impresario edile dell’epoca dei colonnelli, che a differenza di Mitsotakis non può concedersi, nemmeno un po’, il lusso di fare politica per la gloria. Probabilmente adesso gli converrà seguitare a gestire la propria carriera politica da dietro il sipario. Alexis Tsipras ha lasciato in eredità alla Grecia, nel luglio 2019, macerie e potrà fare ancora danno perché la sua uscita di scena non è di sicuro definitiva. Ma è pur sempre un’uscita di scena che come tale merita l’onore delle armi. Chapeau-bas a un capo politico di prima grandezza di questi tempi.