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La macabra moda in cima all’Everest

L'articolo di Livio Zanotti, già in Rai e alla Stampa, per anni corrispondente dall’America Latina e inviato speciale di esteri

Gli undici morti in meno di tre giorni in cima all’Everest non potevano certo restare ignorati dalla grande stampa mondiale. Ma per lo più sono rimasti confinati tra le curiosità dell’informazione-spettacolo, a cui il giornalismo va concedendo sempre maggiore ampiezza nella speranza di contenere la crisi che l’assilla ormai da oltre un decennio. Le foto che presentano centinaia di scalatori, tutti bardati come cosmonauti, bloccati in fila indiana a qualche bracciata dagli 8.848 metri del picco più alto del mondo come all’ingresso in metropolitana in un’ora di punta, sono anche le immagini più potentemente simboliche delle contraddizioni dei nostri tempi.

Non inedite e tuttavia più eloquenti che mai. Al pari delle didascalie, scritte con le testimonianze dei protagonisti: “per toccare vetta abbiamo dovuto calpestare cadaveri…”, “è stato un orrore”, “ho avuto un senso di ripugnanza”. L’etica della montagna, la spiritualità dello sguardo libero nello spazio, la solidarietà nella corda che ti lega ai compagni, l’umiltà che presiede la circospezione del procedere nella immensità della natura: tutto viene sgomitato come in una ressa allo stadio o una rissa in discoteca. Senza neppure l’attenuante di quell’ansia necrofila della guerra che spinse D’Annunzio a celebrarla nel suo memento audere semper. L’eccezionalità di massa è un ossimoro tanto clamoroso quanto inaudito.

Nei 66 anni trascorsi da quando Hillary e Norgay portarono l’uomo sull’inaccessibile montagna himalayana, la tecnica ha stravolto come mai prima in tanto breve tempo la condizione quotidiana dell’uomo e la sua consapevolezza, riducendone l’antropocentrismo e al tempo stesso esaltandolo in un crescendo individualistico. In quelle stesse settimane del 1953, per giornali e radio europei (la TV non esisteva ancora) re della montagna non erano il grande scalatore neozelandese e il suo sherpa nepalese, bensì il ligure Fausto Coppi -a noi in ogni senso più vicino- che pedalando più veloce di tutti sui tornanti dello Stelvio aveva vinto il Giro e poi anche il campionato del mondo.

È un ingannevole paradosso che il famoso annuncio dell’uomo solo al comando, in maglia bianco-celeste della Bianchi enfatizzato dal radiocronista Mario Ferretti, sia divenuto un’icona dell’epoca trionfante dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione italiane, della massificazione della sua società. I miti integrano le realtà storiche, non le precedono. Questa che adesso viviamo evita di vederne i limiti che invece tendenzialmente la disintegrano, per l’insostenibilità di certi consumi non meno che per la crescente delimitazione di altri, ben più necessari e tuttavia di sempre più problematico accesso, come quelli ambientali, della cultura e dei diritti diffusi.

Sia pure a diversi livelli, c’è un turismo d’avventura divenuto feticistico, nell’ansia narcisista dei consumatori convinti di dovervi trovare la riaffermazione di se stessi (io l’ho fatto, io l’ho visto, io l’ho toccato…). Nella sua unicità, l’Everest ne costituisce il teatro più rappresentativo. Specialmente in questa stagione, climaticamente la più favorevole, ai suoi piedi si raccoglie una folla innumerevole pronta ad assaltarlo da ogni parte. Non la frenano gli allarmi per le immondizie che ormai contaminano la montagna, né gli scioperi delle guide. Malgrado la tragedia di questi ultimi undici morti, non ci sono state rinunce tra le persone prenotate per accedere alla montagna nella corrente stagione.

Con le numerose agenzie specializzate che offrono dalle autorizzazioni amministrative ai check-up medici, alle assicurazioni d’ogni tipo, ai vari metodi di coaching preparatori e sul terreno, ai sistemi d’integrazione respiratoria, all’industria delle attrezzature per l’alta montagna che comprendono anche gli avvicinamenti in elicottero, l’Himalaya e le sue vette più celebri ospitano un’infrastruttura di servizio che fattura cifre importanti per una zona naturalmente povera e isolata. Arrivare a metter piede sul balcone più alto del mondo può costare dai 15mila ai centomila dollari e oltre a persona, se come talune si vuol fare la scalata assistiti da una mezza dozzina di sherpa. Le autorità nepalesi di tanto in tanto protestano e ne minacciano la chiusura, ma non possono rinunciare ai profitti di questo commercio.

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