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Vi racconto la folle settimana trumpiana dei dazi

I dazi di Trump, le diversità di opinioni nell'amministrazione Usa, il ruolo di Navarro, gli obiettivi degli Usa, lo stallo europeo e gli scenari. Estratto da Appunti di Stefano Feltri.

Siamo arrivati alla prima settimana dal liberation day, sette giorni di dazi che sembrano sette mesi. E’ quindi tempo di un primo bilancio: Donald Trump sta ottenendo quello che voleva o sta distruggendo l’economia mondiale senza avere niente in cambio?

La risposta a questa domanda rischia di essere impossibile, perché non è ben chiaro cosa Trump voglia ottenere. E in questa settimana la narrazione sta lentamente cambiando fino a ribaltarsi.

Forse anche per questo i mercati rimbalzano un po’, anche se c’è poco da illudersi, la calma non può tornare in assenza di chiarezza su quello che sta succedendo e finché restano in vigore misure che frenano la crescita ovunque.

Il 2 aprile Trump, dal giardino delle rose della Casa Bianca annuncia i nuovi dazi in vigore dal cinque aprile. I mercati crollano subito dopo perché il nuovo protezionismo americano ha un’entità inattesa: 10 per cento di dazi per tutti, anche per i Paesi verso cui gli Stati Uniti hanno un surplus commerciale, 20 per cento per l’Unione europea, 34 per cento per la Cina, dazi fino al 50 per cento per Paesi poverissimi come il Lesotho.

La ragione è stata sviscerata in questi giorni: l’amministrazione Trump ha usato una formula che considera qualunque eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni un problema da correggere, ha calcolato il dazio per azzerare il deficit commerciale e poi ha diviso per due perché venivano numeri troppo alti perfino per loro.

Gli economisti hanno spiegato in ogni modo che è un calcolo assurdo, perché per il ruolo che gli Stati Uniti hanno nell’economia mondiale è chiaro che importeranno sempre più di quanto esportano dal Vietnam, per fare un esempio, da dove arrivano beni intermedi che poi vengono assemblati e rivenduti a ricchi consumatori europei, o americani.

Azzerare i deficit bilaterali equivale a chiamarsi fuori dall’economia mondiale. La narrazione del primo giorno, che forse è quella più propria del presidente Trump, è stata dunque che i deficit commerciali motivavano i dazi e che a fronte di una sofferenza di breve periodo – tra prezzi più alti e mercati finanziari in subbuglio – ci sarebbero stati benefici di lungo periodo, cioè sarebbero tornati gli investimenti nel settore manifatturiero negli Stati Uniti.

Magari il prezzo di un iPhone della Apple raddoppierà, che sia per i dazi o perché deve essere assemblato negli Stati Uniti, ma ci saranno più posti di lavoro per assemblatori di iPhone negli Stati Uniti, questa la promessa trumpiana.

I mercati sono crollati perché significa recessione, inflazione, disastri.

La linea Navarro

Poi a questa narrazione se ne è affiancata un’altra. Il consigliere economico per le politiche commerciali di Trump si chiama Peter Navarro, è un economista dalla dubbia reputazione, che è finito in carcere nel 2022 per essersi rifiutato di cooperare con la commissione del Congresso che indagava sul tentato colpo di Stato dei sostenitori di Trump del 6 gennaio 2021. Insomma, è uno dei fedelissimi e uno dei pochi reduci della prima amministrazione Trump che sia rimasto nelle grazie del presidente.

A leggere l’editoriale che ha pubblicato sul Financial Times e ad ascoltare i suoi lunghi interventi televisivi, Peter Navarro dice una cosa molto diversa da Trump: sostiene che i dazi servano per costringere gli altri Paesi a ridurre le proprie barriere tariffarie e non tariffarie, cioè i dazi e i regolamenti che limitano le esportazioni americane. Che neanche dazi pari a zero sarebbero sufficienti, perché gli altri Paesi dovrebbero non solo togliere ogni tassa sulle importazioni, ma anche armonizzare le regole e la fiscalità in modo da favorire i produttori americani.

In questa accezione, i dazi sarebbero soltanto uno strumento negoziale per ottenere nel medio periodo il contrario dell’effetto che hanno nel breve, cioè maggiore apertura commerciale, maggiore interscambio, più globalizzazione.

Elon Musk, intervenendo al congresso della Lega nel weekend, ha detto di sognare zero dazi tra Europa e Stati Uniti, che è più o meno la situazione che c’era prima del “liberation day”.

Quando la Cina ha reagito ai dazi americani con contro-dazi analoghi del 34 per cento, Trump invece che riconoscere la mossa come scontata e inevitabile, si è infuriato, ha minacciato altri dazi al 50 per cento, Pechino ha reagito dicendo che “combatterà fino alla fine”.

Se il vero intento dei dazi è quello di Navarro, cioè costringere gli altri Paesi ad aumentare l’integrazione commerciale con gli Stati Uniti, Trump si aspetta di vedere dai partner colpiti l’atteggiamento dell’Unione europea, che non ha ancora annunciato contro-dazi per rispondere al “liberation day” e, al contrario, con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen continua a parlare di maggiore integrazione commerciale.

Von der Leyen ha perfino evocato una riedizione del Ttip, il grande progetto geopolitico di integrazione tra Stati Uniti e Unione europea negoziato negli anni di Barack Obama e poi affondato da Trump.

Peter Navarro e Trump parlano sempre dei posti di lavoro nel settore manifatturiero da recuperare: è vero che scendono dagli anni Ottanta, ma la colpa non è dei partner commerciali scorretti bensì dell’evoluzione dell’economia e dell’aumento della produttività. Ci sono meno operai e più ingegneri del software, che guadagano parecchio di più e fanno crescere l’economia americana.

Non saranno i dazi a far riapparire quei sei milioni di posti di lavoro, a meno che gli Stati Uniti non tornino indietro di qualche decennio in termini di specializzazione produttiva e ricchezza.

Peter Navarro, in un salto logico spericolato, ha provato anche a sostenere che i dazi non sono tasse, ma sgravi fiscali, nel senso che il gettito della tassa sulle importazioni andrà a pagare riduzioni delle tasse pagate dagli americani.

Nel migliore dei casi il saldo sarà nullo, ma questa contorta e bislacca promessa indica comunque che l’intento non è trasformare il protezionismo in una fonte stabile di gettito. Un altro segnale che i dazi hanno soprattutto una funzione negoziale.

Intendiamoci: è inutile cercare una logica in tutto questo, non ha alcun senso far sprofondare le Borse mondiali per aprire qualche tavolo negoziale che potrebbe dare benefici nel giro di anni. Ma dobbiamo cercare di capire le motivazioni dell’amministrazione Trump, per quanto folli e masochistiche.

La reazione europea

Se accettiamo lo schema di Navarro, rispondere ai dazi con altri dazi o con le ritorsioni consentite dallo “strumento anti-coercizione” dell’Unione europea potrebbe soltanto peggiorare le cose: anche i dazi sulle importazioni americane sono tasse, che colpirebbero i consumatori europei e provocherebbero probabilmente altre misure protezionistiche da parte degli Stati Uniti.

Meglio prendere tempo, e non fare niente. Come ha osservato l’economista Daniel Gros della Bocconi, la struttura delle tariffe decise nel “liberation day” è tutto sommato favorevole all’Europa: i dazi sui prodotti europei sono al 20 per cento, quelli sui prodotti cinesi almeno al 34 che si somma ad altri dazi già in vigore e il tasso di protezione è sopra il 54 per cento e potrebbe salire ancora.

Questo significa che la differenza tra quei due dazi, cioè tra 54 e 20 per cento, crea un vantaggio comparato per le esportazioni europee verso gli Stati Uniti che sono in concorrenza con quelle cinesi. In più, gli europei hanno impianti produttivi in America in molti settori, come l’automobile, i cinesi no.

Insomma, i consumatori americani soffriranno per i dazi, ma per loro i prodotti importati dall’Europa risulteranno più interessanti rispetto a prima dei dazi, se confrontati con quelli cinesi.

Per una volta, l’apparente indolenza europea nel reagire a Trump potrebbe rivelarsi la strada giusta. Il test sarà il viaggio di Giorgia Meloni a Washington la settimana prossima: se otterrà qualcosa, nell’incontro del 17 aprile, avremo la conferma che Trump ha un disperato bisogno di qualche apertura commerciale che gli consenta di ridurre i dazi annunciati e proclamare vittoria.

Perché l’alternativa per Trump è mantenere i dazi così come sono e andare incontro a recessione e rivolte popolari, oltre che a trovarsi contro l’intero establishment economico-finanziario transatlantico.

La prossima settimana entreranno in vigore però dazi ritorsivi che l’Unione europea ha approvato in risposta a dazi settoriali decisi a febbraio da Trump su acciaio e alluminio. Una mossa, anche questa, quasi dovuta da parte della Commissione, non particolarmente ostile, che ha peraltro tenuto conto della minaccia della Casa Bianca di non colpire alcuni superalcolici americani come il bourbon o sarebbe scattata la vendetta sul vino.

Se Trump davvero ha messo i dazi soltanto per poi avere la soddisfazione di toglierli a fronte di qualche accordo anche soltanto simbolico, lo capiremo presto. Già nei prossimi giorni, con il viaggio di Giorgia Meloni.

Se invece il piano di Trump è scardinare l’ordine mondiale per il gusto di farlo, o sono il segnale comunque che un ordine mondiale sta collassando – come scrive in un post su X il grande investitore Ray Dalio – beh, allora non ci sarà alcuna concessione, alcun negoziato, alcuna variazione del piano originario annunciato il 2 aprile.

(Estratto da Appunti)

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