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Giorgetti

Vi racconto la festicciola canora del Primo Maggio tra Fedez e Venditti

Il Primo Maggio canoro fra esibizionismi e politicismi visto da Francesco Damato

 

Più che la festa del lavoro, in verità, mi è sembrato un festino con quella cantante che all’Auditorium di Roma ha esibito le sue tette, a beneficio di tutto il pubblico connesso, non solo delle poche centinaia di spettatori sul posto, per gridare all’amore libero “con chi vogliamo e quanto vogliamo”.

Certo, in mancanza di lavoro, per quanto i licenziamenti siano bloccati, non potendosi comunque scongiurare per legge le chiusure di tante aziende, piccole ma anche grandi, rimaste senza fatturato in questi tempi di pandemia, è meglio fare allegramente l’amore con chi ci sta – per favore, niente stupri – che scendere in piazza, prendersela con le forze dell’ordine e magari obbligare a chiudere per paura di danni da dimostrazione i pochi negozi rimasti ancora aperti. Ma è roba, ripeto, da festini, non da feste. E non si fa neppure un favore allo Spettacolo, con la maiuscola, che questi artisti del 1° maggio hanno raccomandato con l’appello di Fedez – al netto della sparata politica contro la Lega e, più in particolare, un suo parlamentare-  al carissimo Mario, inteso naturalmente come Draghi, il presidente del Consiglio. Se è questo lo spettacolo, con la minuscola, che ci vogliono propinare, mi interessa poco, anche se gratis, pur essendoci di mezzo il canone pagato con la bolletta elettrica.

Ho personalmente trovato inappropriato in questo festino del lavoro del 2021 anche il riferimento, stavolta compiaciuto, ai politici estinti. Vorrei ricordare, per esempio, ad Antonello Venditti, pur con tutto il rispetto dovuto al compianto Enrico Berlinguer e alla sua toccante morte sul campo, diciamo così, con quel comizio strozzato alla fine da un ictus, che quel “Dolce Enrico” c’entra poco con una Festa, ma anche con un festino, del lavoro. Lo scrivo con estremo rammarico per la memoria di quello che è pur sempre rimasto il segretario più popolare del Pci, ma di cui l’ultima battaglia – condotta sino all’imposizione alla Cgil di una sfida referendaria rovinosa per la sinistra quanto quella del referendum sul divorzio per la Dc e, più in generale, per i cattolici – fu quella contro i tagli alla scala mobile dei salari, Che furono negoziati con i sindacati e apportati dal governo di Bettino Craxi per proteggere i salari dall’inflazione a due cifre che li erodeva.

Non fu, francamente, quella ultima di Berlinguer -r ipeto – una bella battaglia per il lavoro e i lavoratori, condotta peraltro col dichiarato proposito non di difenderne gli interessi, ma di rivendicare il diritto di veto di un partito o di una corrente sindacale in determinate materie, a prescindere quindi dal merito o contenuto delle misure adottate. Dolce Enrico, scusatemi la franchezza, un corno in quel passaggio cruciale della politica italiana: passaggio in cui dal segretario del Pci personalmente mi sarei aspettato un coraggio pari a quello avuto in televisione, rispondendo ad una mia domanda sulla svolta militarista di governo in Polonia, sull’”esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre” comunista.

Del richiamo di Venditti sarà rimasto tuttavia soddisfatto l’altro Enrico, quello del Pd, il segretario Letta, riferitosi anche lui a Berlinguer nel suo discorso di candidatura e insieme di insediamento al posto di Nicola Zingaretti. Ma penso, sinceramente, che pochi di quelli che hanno ascoltato e condiviso la nostalgia berlingueriana di Venditti abbiano pensato davvero anche ad Enrico Letta.

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