Non vorrei che l’operazione Quirinale, di qualunque esito possibile, dalla conferma ora improbabile e a tempo di Sergio Mattarella all’elezione “in cinque minuti” di Mario Draghi, a un suo solo cenno di consenso o interesse, con Daniele Franco spostato a Palazzo Chigi, dovesse portare il nome non felice de La Storta: la località periferica di Roma Nord dove i tedeschi in fuga nel 1944 sterminarono 14 prigionieri.
Goffredo Bettini, animatore e quant’altro del Pd e dei suoi interlocutori di turno, ha voluto riunirvi un centinaio fra amici e compagni per festeggiare i suoi 69 anni nella villetta a due piani messagli a disposizione dall’autista “storico” Libero Bozzi e dalla consorte. Che ha cucinato per loro lasagne, polpette al sugo, pasta e ceci, verdura ripassata e chissà cos’altro nascosto alla giornalista di Repubblica Giovanna Vitale, autrice designata per uno scoop che – scusate la malizia – non mi sembra proprio casuale nel clima torbido nel quale, volenti o nolenti, hanno voluto confinare discussioni, trattative, contatti e quant’altro sul Quirinale quanti non ne vogliono discutere pubblicamente, in regolari riunioni di partito o assemblee di gruppi parlamentari.
C’era di tutto e di tutti fra gli ospiti convocati da Bettini nella villetta dell’autista: dai compagni di partito Andrea Orlando, Dario Franceschini e Nicola Zingaretti al presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte, arrivato col solito ritardo appena spiegato in una intervista al Corriere della Sera dal professore Guido Alpa, con l’ostinazione ad usare un orologio non automatico che l’ex presidente del Consiglio dimentica sistematicamente di ricaricare; dai sindaci di Roma e di Napoli ad un bel po’ di assessori e a Gianni Letta nella doppia veste, presumo anche qui maliziosamente, di plenipotenziario di Silvio Berlusconi, che ne se fida più dei figli e degli amici fraterni di una vita, e di zio del segretario del Pd Enrico Letta. Che evitando di andare di persona all’appuntamento ha quanto meno voluto risparmiarsi la violazione sfacciata della “moratoria” – ricordate? – impostasi e proposta a tutti, in attesa quanto meno della formale convocazione delle Camere e dei 59 delegati regionali, nei primi giorni di gennaio, per l’elezione del presidente della Repubblica. Che peraltro non basterà neppure ad aprire le cateratte, diciamo così, di chissà quale confronto o discussione pubblica perché l’aula di Montecitorio, dove i cosiddetti grandi elettori si riuniranno, sarà solo un seggio elettorale. Vi si potrà accedere solo per votare, e a scrutinio rigorosamente segreto, cioè con licenza di cecchinaggio contro le eventuali indicazioni dei gruppi e dei partiti o movimenti di riferimento.
A pensarci bene, ci sarebbe da rabbrividire davanti a simili corride parlamentari e politiche, preferite all’elezione diretta del presidente della Repubblica o almeno ad una disciplina delle candidature lasciando l’elezione indiretta. Eppure così si sono volute lasciare le cose dal lontano 1948, quando entrò in vigore la Costituzione repubblicana. Ed è un vero miracolo che con questo tipo di regole l’Italia abbia potuto avere presidenti della Repubblica come Luigi Einaudi, Giovanni Gronchi, Giovanni Leone, Sandro Pertini, Francesco Cossiga, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano e l’uscente Mattarella. Ogni omissione, nella lista degli inquilini succedutisi al Quirinale, è naturalmente voluta, e motivata pur nel silenzio imposto dall’esaurimento dello spazio autoassegnatomi.