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Vi racconto i trambusti in Parlamento sulla manovra della discordia

Che cosa è successo al Senato sulla manovra? I Graffi di Damato

 

Annunciata a fine settembre  -sopra e sotto il balcone di Palazzo Chigi-  come “la manovra del popolo”, quella uscita nella notte scorsa dall’aula del Senato con 167 voti favorevoli di fiducia, 78 contrari e 3 astensioni su un emendamento di 270 pagine arrivato in maxi-ritardo si può definire “la manovra del tartufo”. I cui raccoglitori -non so quanti esattamente in Italia- non sono stati risparmiati dalla spremuta fiscale in extremis, al pari dei disperati che giocano al lotto e di tanti altri chiamati a contribuire alla copertura delle troppe spese sopravvissute anche ai tagli concordati con la Commissione Europea.

A quei tagli si è proceduto con una trattativa seguita alle sfide di settembre e ottobre: quando i due vice presidenti del Consiglio, il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini, fungevano da paracarri lungo un percorso in cui il governo non si sarebbe mai fermato, e tanto meno sarebbe arretrato “di un millimetro”. Dal canto suo, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, professore di diritto, avvocato civilista “del popolo” pure lui, parlava seraficamente di una procedura europea d’infrazione come di qualcosa con cui il suo esecutivo gialloverde avrebbe potuto tranquillamente “convivere”.

Che cosa abbia poi indotto Conte e i suoi due vice a cambiare idea e a passare dalla sfida ad un mezzo accattonaggio politico, come alla fine è apparsa a torto o a ragione la trattativa con Bruxelles, per non parlare dell’appendice costituita dalla lunga elaborazione del maxi-emendamento al bilancio condotta negli uffici romani del Ministero dell’Economia, si saprà solo se e quando il presidente della Repubblica vorrà rivelare l’opera di “persuasione morale” svolta dietro le quinte sul governo. Cui poi egli ha voluto generosamente riconoscere, nella cerimonia degli auguri di fine anno sotto le volte affrescate del Quirinale, il merito o il coraggio, come preferite, di essere passato dalla sfida al negoziato nei rapporti con l’Unione Europea.

In attesa di vedere gli effetti economici e sociali del bilancio che il Senato ha appena trasmesso alla Camera perché lo approvi in via definitiva entro il 31 dicembre, anche a costo di fermare l’orologio nell’aula di Montecitorio; ma forse anche in attesa di vederne gli effetti giuridici, visto che alcune misure e persino modalità di approvazione saranno contestate davanti alla Corte Costituzionale, qualche giudizio politico si può ben esprimere già adesso. E non può che essere desolante, come dimostra d’altronde il disagio mostrato dagli stessi presidenti delle Camere. I quali hanno chiesto al governo, pur con giri di parole e tonalità di voce a dir poco prudenti, maggiore rispetto per il Parlamento, sempre che questo esecutivo dovesse avere naturalmente un’altra occasione di proporre una legge di bilancio.

Ciò sembra improbabile, a dispetto dell’ottimismo ostentato in pubblico sia da Conte, sia da Di Maio, sia da Salvini. Il quale ultimo, peraltro, rivelatosi così refrattario a certi appuntamenti istituzionali, sino a disertare sedute parlamentari e cerimonie al Quirinale, ha voluto -chissà perché- assistere stoicamente nell’aula del Senato il ministro grillino dei rapporti col Parlamento che poneva la fiducia sul maxi-emendamento presentato, ripeto, con un maxi-ritardo. E a cui poi sono state apportate modifiche a voce, non essendovi più il tempo per proporle per iscritto.

Mentre si accingeva proprio nella ormai ex “bomboniera” di Palazzo Madama ad esprimere un’astensione equivalente a voto contrario allaMonti.jpg fiducia al governo, il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti ha scritto per il Corriere della Sera un editoriale dal titolo più che significativo: Bivacco in aula. Un bivacco -ha cercato di frenare Monti per non confondere il suo commento con la celebre liquidazione del Parlamento fatta da Benito Mussolini nel suo esordio come presidente del Consiglio nel 1922- “finora né sordo né grigio, ma di senatori esautorati”. Così aveva già denunciato nella stessa aula del Senato il giorno prima la senatrice Emma Bonino senza lasciarsi intimidire né dalle proteste dei parlamentari più esagitati della maggioranza né da un richiamo a dir poco infelice, almeno per i tempi e le circostanze, del presidente di turno della seduta: il leghista Roberto Calderoli.

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