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Democrazia

Vi racconto i gassosi schieramenti di maggioranza e opposizione

Che cosa succede negli schieramenti di maggioranza e di centrodestra?

Si fa presto a parlare, anche dopo gli ultimi dibattiti parlamentari sull’emergenza virale gestita dal governo Conte, ed entrata adesso in una nuova fase, di maggioranza e di opposizione. O di opposizioni al plurale, secondo la generalità delle rappresentazioni, come se differenze e contrasti non attraversassero pure la maggioranza.

Ebbene, entrambi gli schieramenti hanno una destra, un centro e una sinistra, anche se solo uno si chiama formalmente centrodestra. Ed è quello naturalmente a trazione leghista, che avrebbe probabilmente vinto le elezioni anticipate d’autunno se il presidente della Repubblica le avesse permesse e non fosse stato invece esentato dalla formazione improvvisata ed emergenziale della maggioranza giallorossa. Essa fu promossa a sorpresa nella scorsa estate da Matteo Renzi, ancora nel Pd, per evitare i famosi “pieni poteri” chiesti agli elettori dall’altro Matteo, cioè Salvini.

Il centro del centrodestra – non me ne voglia Berlusconi, che lo reclama – è della Lega per la sua consistenza elettorale, per quanto in arretramento secondo gli ultimi sondaggi. La destra è naturalmente quella di Giorgia Meloni, che ne è orgogliosa, come se l’avesse pazientemente gestita e partorita come una figlia dopo la sostanziale scomparsa di Gianfranco Fini dalla scena. E la sinistra -non il centro, ripeto- è rappresentata inusualmente dal Cavaliere per la sua obiettiva vicinanza maggiore, su tanti temi, a cominciare dai rapporti con l’Unione Europea, a larga parte, diciamo così, dell’altro schieramento: non tutto, però, perché i grillini, come vedremo, fanno storia a sé. Della linea di Berlusconi si è appena compiaciuto in una intervista alla Stampa Enrico Letta, del Pd, che pure a Palazzo Chigi lo aveva perduto come alleato nell’autunno del 2013.

L’altro schieramento è formato da un centro identificabile nel Pd di Nicola Zingaretti, ora anche per ragioni numeriche, dandolo i sondaggi più avanti del Movimento 5 Stelle uscito invece elettoralmente più forte, e perciò centrale, dalle urne del 4 aprile 2018. La posizione di destra spetta a Renzi, uscito dal Pd per denunciare ogni volta che può la vera o presunta sudditanza del Pd ai grillini.  Che egli classifica non a torto a sinistra quando denuncia gli sperperi prodotti dal loro cosiddetto reddito di cittadinanza e quelli che potrebbe procurare il reddito “universale”, proposto da Beppe Grillo in persona quando è insorta l’emergenza virale e se ne sono profilate le conseguenze economiche e sociali.

Ma i grillini non sono sempre e certamente individuabili a sinistra. Sono frequentemente anche a destra: quella sovranista, per esempio, della loro ostilità o diffidenza verso il meccanismo europeo di stabilità economica, o fondo salva-Stati, in concorrenza o nuova simbiosi con la Lega, scelta del resto come alleata di governo subito dopo le elezioni politiche di due anni fa.

I grillini si ritrovano a destra, almeno quella classica, anche nella concezione del carcere dove il secondino potrebbe gettare la chiave della cella in cui ha appena chiuso il detenuto di turno. E se un magistrato ne tira fuori qualcuno perché le sue condizioni sanitarie lo hanno portato più vicino alla morte che alla vita, sono guai. Sotto questo profilo – me lo lasci dire senza malanimo personale l’interessato, ora anche capo della delegazione pentastellata al governo – il guardasigilli Alfonso Bonafede è finito a destra tanto rigorosamente quanto forse inconsapevolmente. per istinto. Avrà letto, spero, l’intervista dell’avvocato Franco Coppi al Dubbio.

Di fronte ad uno scenario del genere, con due schieramenti – ripeto – entrambi divisi, il meno che si possa lamentare della situazione politica è, diciamo così, il suo stato gassoso. Che, specie con l’aggravante dell’emergenza virale sopraggiunta alla stregua di una guerra, o un uragano, come preferisce dire il Papa, comporta confusione o addirittura marasma. E toglie giustamente il sonno anche al presidente della Repubblica. La cui loquacità in questo periodo, in termini di messaggi, appelli e quant’altro, dimostra da sola quanto egli sia preoccupato, e non ritenga forse sufficienti, o sufficientemente “chiari”, gli indirizzi e quant’altro del governo e del premier, prodigo di conferenze stampa, interviste e dichiarazioni, oltre che di decreti. Il cui acronimo una volta noto solo agli addetti ai lavori – dpcm – è entrato di prepotenza nelle cronache e negli stessi titoli dei giornali.

Alle prese con una realtà di questo genere, con i due classici schieramenti parlamentari e politici così divisi al loro interno, Aldo Moro si sarebbe messo probabilmente a lavorare per scomporli e ricomporli in altro modo, secondo le sue abitudini, accostando ulteriormente i più vicini su certi aspetti o problemi più urgenti di un programma di governo, e allontanandoli dagli opposti. Ma Moro è morto, peraltro in una maniera che più tragica non poteva essere, ben 42 anni fa. E, per quanti sforzi faccia spesso Eugenio Scalfari da qualche tempo di indicare Conte come un suo corregionale erede o emulo, accostandolo domenica scorsa su Repubblica anche a Cavour e persino a Papa Francesco, il paragone continua a sembrami temerario.

Va detto tuttavia, a beneficio di Conte, che la situazione politica attuale è terribilmente più complessa di quelle pur difficili gestite da Moro ai suoi tempi. Che avevano comunque  partiti ben strutturati e certezze internazionali, scomparse con la caduta del muro di Berlino e con la fine del cosiddetto mondo bipolare modellato a Yalta. “Un abisso ci può inghiottire”, ha osservato Enrico Letta aggiungendo: “La politica non è lacerata, è proprio a coriandoli”.

Non c’è adesso qualcosa di paragonabile all’extraparlamentarismo di sinistra prodotto dalla contestazione sessantottina, che spinse per forza di cose il Pci verso il centro, non certamente al centro, e consentì a Moro quell’apertura ai comunisti passata alla storia come “strategia dell’attenzione”, pur con tutti i suoi inconvenienti sfociati nel terrorismo che costò la vita allo stesso Moro. Cui i brigatisi rossi non perdonarono di volere “imborghesire” il Pci di Enrico Berlinguer.

Ora c’è un amalgama mal riuscito – direbbe Massimo D’Alema – di pulsioni e confusioni di ogni tipo. Persino Moro forse si sarebbe messo le mani fra i capelli e avrebbe faticato ad uscirne. Persino lui, ripeto, pensando peraltro anche a Sergio Mattarella, approdato alla politica dopo la morte di Moro ma moroteo come il padre, e poi il fratello ucciso dalla mafia.

L’articolo tratto da I graffi di Damato.

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