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Vi spiego gli ultimi fuochi elettorali per le Europee

La fiera delle parole durante la campagna elettorale per le Europee raccontata dal notista politico Francesco Damato

 

In coerenza, bisogna riconoscerlo, con l’inizio e con tutto il suo svolgimento, questa lunga campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, di un consiglio regionale, quello del Piemonte, e di qualche migliaio di amministrazioni comunali si è conclusa col tema dell’abuso. Che è quello penale d’ufficio, la cui rimozione o riforma, liquidata come “stronzata” dal vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, è stata proposta dall’omologo leghista Matteo Salvini, convinto forse di andare sul sicuro per avere seguito le orme, o quasi, del presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Il quale sarà sobbalzato pure lui, credo, sulla sedia, già consumata dai cinque anni già trascorsi dei sei del mandato, sentendo prendere a parolacce un tema sollevato con la professionalità di un magistrato nel momento dell’approvazione della legge cosiddetta “spazzacorrotti”. La cui applicazione potrebbe confliggere col carattere attualmente non ben definito del reato di abuso, appunto, d’ufficio: tanto poco definito da essere stato paragonato una volta da un amministratore, ed ex ministro, dell’esperienza di Pier Luigi Bersani al sovraccarico di un camion, contestabile con una multa al conducente.

Prima ancora che d’ufficio, inteso come reato, questa lunga campagna elettorale è stata una fiera di abuso di parole. Che hanno prodotto più danni anche delle più controverse iniziative del governo, come hanno lamentato, incalzati dallo spread nei mercati finanziari, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, a volte persino il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e, sul versante non certo secondario della Confindustria, dal presidente Vincenzo Boccia. Che all’assemblea nazionale degli imprenditori quando ha denunciato le troppe parole della politica come un attentato agli interessi nazionali ha raccolto applausi simili per intensità a quelli ottenuti, al suo solo arrivo in sala, dal capo dello Stato. Al quale gli industriali avevano chiaramente voluto esprimere così l’entusiasmo e la fiducia immeritati evidentemente dalle altre autorità presenti: a cominciare dal presidente del Consiglio e dal ministro abituale in simili occasioni come quello dello Sviluppo Economico, statistica e valutazioni delle agenzie internazionali e organismi comunitari permettendo.

Tutto, in questa campagna elettorale, è sembrato travolto dalle parole. Ultimatum e penultimatum si sono rincorsi non a giorni ma a ore, nell’arco qualche volta di una stessa mattina, o di una stessa sera. Non parliamo poi delle notti che hanno scatenato i sogni travestiti o tradotti in retroscena con le solite smentite e precisazioni della credibilità proporzionale alla loro frequenza.

Va detto, con franchezza e onestà, che all’abuso delle parole si sono abbandonati non solo i due partiti, leader e comprimari della maggioranza, peraltro scontratisi fra di loro come avversari con un accordo di cartello contro le opposizioni da reclamo, per quanto metaforico, all’autorità della concorrenza. Vi si sono abbandonati anche i partiti, leader e comprimari delle opposizioni titolari legittime di questa funzione per avere votato e votare in Parlamento contro il governo.

Cominciamo col versante di sinistra. Dove il povero Nicola Zingaretti ha sudato le proverbiali sette camicie, fuori stagione col tempo capriccioso che fa, per ricucire gli strappi e rendere competitivo il suo Pd almeno col movimento delle 5 stelle, e si è rivisto improvvisamente ricacciato indietro. E’ avvenuto non solo e non tanto con la rocambolesca vicenda delle dimissioni della presidente della regione Umbria, indagata in una inchiesta costata l’arresto ad altri esponenti e amministratori compagni di partito, quanto -sul piano più generale della linea politica- da una sortita del già citato Pier Luigi Bersani. Che, prima ancora di rientrare nel partito da cui era uscito due anni fa con Massimo D’Alema, limitandosi domani a votare per la lista unitaria allestita per l’occasione, si è messo a gridare ai quattro venti che in caso di crisi di governo andrà cercata subito un’intesa con i grillini per strapparli definitivamente all’alleanza con i leghisti. Invece Zingaretti reclama notoriamente le elezioni anticipate.

Sul versante di destra, o del centrodestra, dove Salvini sta notoriamente con un solo piede, quello delle amministrazioni locali, avendo messo l’altro nel governo con i grillini, l’indomito Silvio Berlusconi, stanco di aspettare il ritorno del figliol prodigo, ha cercato di ricacciarlo ancora più lontano. In particolare, il Cavaliere ha riaperto i giochi della leadership del centrodestra, dicendo che il capo della Lega avrà pure più voti di Forza Italia, molti di più di quelli che già l’anno scorso gliene consentirono il sorpasso, ma non le qualità politiche necessarie a guidare una coalizione. E così si fa buio anche dall’altra parte, ammesso e non concesso naturalmente che il “capitano” leghista volesse e voglia farla risplendere.

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