Un simpatico congresso sull’arte di procrastinare, tenuto a Chicago nel 2017, concluse che il 20% degli adulti occidentali, di fronte a un problema, fa proprio il motto «perché fare oggi ciò che si può fare domani?». A questa arte sembra essere ispirata l’intervista che la socialdemocratica svedese Ylva Johansson, 57 anni, commissaria Ue agli Affari interni, ha rilasciato a Repubblica prima di recarsi a Tunisi, insieme alla ministra italiana dell’Interno, Luciana Lamorgese, dove ha esaminato con le autorità tunisine la questione dei migranti verso l’Italia. Un tema europeo divisivo e irrisolto, tornato d’attualità con l’arrivo dell’estate, del mare calmo e del minore allarme pandemico.
Messa di fronte al fatto che le politiche migratorie proposte dalla Commissione Ue sono tutte fallite, dal cosiddetto accordo di Malta fino alla proposta del settembre scorso sulla redistribuzione volontaria, la Johansson ammette: «Abbiamo imparato che la redistribuzione volontaria non è abbastanza. Dunque, l’approvazione della riforma delle politiche migratorie, con i ricollocamenti obbligatori, è essenziale». Ricollocamenti obbligatori? Roba da lustrarsi gli occhi. Ma come, e quando? Giustamente, Alberto d’Argenio, autore dell’intervista, le fa notare che i paesi del Nord Europa, gruppo di Visegrad in testa, non accetteranno mai l’obbligatorietà, mentre la Germania, impegnata nella campagna elettorale, si guarderà bene dal manifestare ora qualsiasi apertura sul tema.
Così, la commissaria Ue, da perfetta procrastinatrice, tira il freno, rinviando nel tempo i ricollocamenti obbligatori: «Negli ultimi mesi siamo andati avanti piano perché a causa del Covid abbiamo avuto pochi incontri fisici con i ministri, mentre un tema così divisivo va affrontato guardandosi negli occhi. A breve, potremo riprendere a vederci di persona e andare avanti». Ma che significa «a breve»? Forse il varo della riforma entro l’estate, con ricollocamenti obbligatori? Nemmeno per sogno: «No, ci vorrà tempo», ammette la signora Johansson. Traduzione: fino a ottobre, cioè dopo le elezioni politiche tedesche, non se ne parla. Il che espone l’Italia a un’estate che «si preannuncia di vittime e di sbarchi», nota l’intervistatore.
Ma la commissaria non si commuove, né si muove dalla posizione di partenza, quella di procrastinare: «Sono in contatto con i governi dei paesi Ue per organizzare una rete di aiuti volontari che possa aiutare l’Italia nei mesi estivi, fino a quando non approveremo la riforma Ue». Una rete inesistente per ora, a giudicare dal fatto che un solo paese Ue, l’Irlanda, si è fatto avanti per accogliere dieci migranti in tutto, a fronte di migliaia di sbarcati nelle ultime settimane.
Da giornale buonista con i migranti, come lo sono i partiti di sinistra e papa Bergoglio, la Repubblica ha mascherato questa arte del rinvio europeo con un titolo fuorviante: «Johansson: l’Europa bloccherà le partenze da Libia e Tunisia». Bloccherà? Ma dai. Dall’intervista, si capisce benissimo che la Commissione Ue, nei colloqui iniziati ieri a Tunisi, non andrà oltre la promessa di soldi in cambio dello stop ai barconi: aiuti economici, purché la Tunisia accetti di rimpatriare i propri migranti, che non sono rifugiati politici. Un deja-vu fallimentare.
Qualcosa di simile sarà negoziato anche con la Libia, dove in dicembre si terranno elezioni politiche. «Abbiamo riscontri positivi con il governo ad interim», afferma Johansson, «ma ogni paese ha la sua specificità, non si può fare un copia e incolla di altre intese come quelle con la Turchia». Il che fa pensare, inevitabilmente, all’Ue con due pesi e due misure. Con Erdogan, lo scambio tra miliardi di euro e blocco dei migranti va bene perché lo vuole la Merkel, mentre l’Italia, sui migranti dalla Libia, deve accontentarsi di qualche promessa di aiuti economici Ue al governo ad interim libico. Il tutto mentre Bruxelles plaude alla Spagna, che ha respinto con l’esercito alcune migliaia di immigrati dalla sua enclave di Ceuta, in Marocco.
In questo contesto, che sa di presa in giro, c’è un divario netto tra quanto Mario Draghi ha auspicato dieci giorni fa in Parlamento e l’inettitudine europea. «Il governo italiano è impegnato a promuovere le opportune iniziative bilaterali, a condurre un’azione da parte dell’Unione europea affinché le autorità libiche contrastino i traffici di armi e di esseri umani nel rispetto dei diritti umani e ad esercitare una pressione intra-europea affinché si torni a una redistribuzione credibile ed efficace dei migranti approdati in Italia», ha detto il premier. Ancora: «La priorità è il contenimento della pressione migratoria nei mesi estivi. Siamo impegnati a ottenere da Libia e Tunisia una collaborazione più intensa ed efficace nel controllo delle loro frontiere marittime e terrestri e nel contrasto alle organizzazioni dei trafficanti».
Infine, la battuta accolta dagli applausi della sinistra che tifa per i porti aperti alle Ong: «Nessuno deve essere lasciato solo nelle acque territoriali italiane». Un principio, quest’ultimo, indiscutibile. Le acque territoriali, però, si estendono fino a 12 km dalla costa, dettaglio ben noto ai taxi del mare delle Ong, che di solito agiscono in acque internazionali, per poi dirigersi quasi sempre verso l’Italia. «La legge del mare, spesso citata a vanvera, dice che devi salvare un naufrago e portarlo in un porto sicuro», ha spiegato più volte l’ex pm Carlo Nordio. «Ma sono sicuri anche i porti delle navi Ong: Francia, Germania e Olanda». Un messaggio chiaro: dei migranti dovrebbero farsi carico i paesi a cui fanno capo le Ong con le loro bandiere. Da qui, un nostro consiglio non richiesto: vista la sua autorevolezza in Europa, Draghi convinca Bruxelles ad applicare questo principio sulle navi Ong quanto prima. Anzi, subito, prima dell’estate. E le partenze dei barconi cesseranno di colpo.