Più che lo scontato rinvio di ogni decisione -in un Consiglio dei Ministri paralizzato, nomine a parte, dalle tensioni elettorali – sulle nuove norme predisposte da Matteo Salvini per sicurezza e immigrazione e di quelle di Luigi Di Maio per aiuti alle famiglie, è di rilevanza politica e istituzionale la frenata che il leader leghista ha dovuto imporsi dopo lo scontro in diretta televisiva con la Procura di Agrigento per lo sbarco a Lampedusa dei 47 migranti ancora trattenuti domenica sulla nave Sea Watch 3. Il cui sequestro probatorio effettuato nelle acque di Lampedusa dalla Guardia di Finanza su disposizione giudiziaria, nell’ambito degli accertamenti su eventuali concorsi al traffico clandestino di persone, ne ha comportato lo sgombero.
Dopo avere protestato e minacciato azioni contro “chiunque”, anche fra gli organi dello Stato, avesse illegittimamente disatteso il suo divieto di approdo della nave nel porto e tanto più di sbarco dei clandestini, il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno si è rimesso alle indagini auspicandone un esito tale da impedire che la Sea Watch 3 torni a navigare con i criteri e le finalità perseguite dal suo comandante. Che peraltro risulta sinora il solo indagato.
La notte e forse anche la ministra leghista della pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, della cui esperienza notissima di avvocata si avvale Salvini, che non a caso l’ha voluta nel governo, debbono avere portato consiglio al titolare del Viminale. Contro le cui dichiarazioni erano già insorti i rappresentanti delle toghe sentitesi minacciate e, con particolare virulenza, il magistrato da poco in pensione Giuseppe Spataro, spintosi a reclamare proteste di piazza contro il ministro dell’Interno. Che già ha i suoi problemi a frequentarle per i comizi della campagna elettorale giunta per fortuna agli ultimi giorni davvero.
Alla conclusione della campagna elettorale, salvo la coda dei ballottaggi che dovessero rendersi necessari nei Comuni rimasti senza sindaco all’esito del primo turno di domenica prossima, si è rimesso anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte per sperare di riprendere un controllo del governo che realisticamente gli è un po’ sfuggito di mano, per quanto lui si fosse data un’iniezione di forza con quell’intervista al giornale spagnolo El Pais che era sembrata addirittura una svolta nei suoi metodi e propositi. Allora egli definì una “illusione ottica” l’impressione largamente diffusasi che il protagonista della compagine gialloverde fosse Salvini. E aggiunse in altra sede di sentire riduttiva per le proprie funzioni anche l’immagine decisiva di arbitro applicatagli comunemente nelle vignette.
Conte è apparso particolarmente sorpreso e amareggiato nelle ultime ore dai giudizi espressi su di lui, in una intervista alla Stampa, dal suo principale collaboratore politico e istituzionale a Palazzo Chigi: il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, convinto che il presidente del Consiglio non sia più imparziale, e abbia finito anche per questo coll’aumentare le difficoltà del governo.
L’amarezza di Conte verso Giorgetti, peraltro sfidato pubblicamente a ripetergli in faccia i rilievi di parzialità in Consiglio dei Ministri, alle cui sedute il sottosegretario partecipa perché ne è il segretario e verbalizzante, si può anche comprendere. Ma è pur vero che, designato più dai grillini che dai leghisti al capo dello Stato in occasione della formazione del governo, Conte mostrò all’inizio della sua esperienza maggiore cautela politica di questi ultimi tempi.
In particolare, egli tenne a rimanere formalmente estraneo al Movimento delle 5 stelle, partecipando solo come ospite a qualche suo evento. Ma ciò valse sino al 21 ottobre dell’anno scorso, quando il presidente del Consiglio decise non solo di partecipare alla conclusione del raduno nazionale grillino al Circo Massimo, a Roma, salendo sul palco della dirigenza, ma anche di annunciare pubblicamente la sua adesione al movimento.
Guarda caso, da allora, pur non mancando di deludere anche i grillini, per esempio sul gasdotto in Puglia, sono state più le volte in cui egli ha deluso i leghisti.