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Varsavia

Il futuro della Polonia si decide in un quartiere di Varsavia

La trasformazione di Praga, a Varsavia, è lenta, graduale e a volte sofferta. Seconda e ultima parte del racconto di Pierluigi Mennitti.

Ma dove il quartiere Praga sta tentando il triplo salto mortale, da area degradata a laboratorio della new economy, è a qualche isolato di distanza, verso sud, oltre il fascio di binari della stazione Wschodnia, sulla ulica Minska.

Nel complesso in mattoni rossi di quella che nel Novecento fu prima una grande fabbrica di munizioni, poi di motocicli (tra cui quello che produceva la Osa, la Vespa polacca), è nata Soho Factory, il sogno newyorchese di Varsavia. Un’incubatrice di startup che ha attirato giovani imprenditori, fotografi di moda, designer, stilisti, commercianti, gestori di locali di tendenza, architetti e costruttori. Di fianco a piccole imprese tecnologiche sono sorti atelier di giovani stilisti, negozi di arredamento moderno, ristoranti sofisticati e caffè.

In un capannone industriale della Soho Factory, David Hill, un inglese nato alle Bermuda e approdato a Varsavia alla ricerca di nuovi stimoli, dirige assieme alla compagna Ilona Karwinska il Neon Muzeum, uno spazio espositivo unico nel suo genere, finanziato con donazioni private. “Tecnicamente si tratta di un museo di arte grafica elettronica”, racconta illustrando il patrimonio raccolto negli ultimi dieci anni: scritte al neon che illuminavano le notti della Varsavia socialista, insegne di mille colori strappate alla furia iconoclasta del post comunismo e riportate in vita attraverso un costoso lavoro di restauro. “Spuntarono alla metà degli anni Cinquanta, sull’onda della destalinizzazione che fu una stagione di relativa apertura artistica. Il regime cercava di adottare nuovi linguaggi comunicativi e di superare il grigiore del periodo più ideologico”. Oltre 200 insegne raccontano lo sforzo del mondo socialista di rincorrere sul versante della grafica urbana l’occidente, anche se i neon di Varsavia non suggerivano, come nel mondo capitalistico, sogni pubblicitari. Piuttosto segnavano una sorta di topografia della città: il nome di un caffè, di un albergo, di un locale da ballo, di un cinema.

Lo spazio espositivo di Hill e Karwinska non è un inno al rimpianto del mondo comunista scomparso. È testimonianza che si trasforma in business. Tutto molto americano, semmai. “A quei tempi i neon erano visti come un contributo decisivo alle aspirazioni economiche e culturali della Polonia – insiste Hill – e oggi noi approfittiamo del boom economico del paese e degli investimenti che vengono fatti in zone come questa”.

Basta dare un’occhiata fuori dalla grande vetrata del museo: nuove insegne luminose, prodotte da Hill e Karwinska, campeggiano sulle facciate degli edifici che ospitano le attività commerciali e imprenditoriali della Soho Factory. “I guadagni dalla fabbricazione di nuovi neon rappresentano una quota fondamentale del nostro business. C’è una vera e propria rinascita, creiamo neon contemporanei e li vendiamo addirittura nel resto d’Europa”.

Sugli otto ettari di terreno che compongono la factory, accanto ai capannoni industriali riadattati per le imprese della new economy sono sorti ristoranti e bar, luoghi di ritrovo, appartamenti moderni e funzionali. “Qui vive e lavora una vera e propria comunità che sente l’obbligo di aprirsi al resto del quartiere”, conclude Hill, cercando di esorcizzare il fantasma della gentrificazione. “L’idea originaria di mettere insieme cultura e commercio, sul modello di quanto avvenuto in altre capitali occidentali, sta funzionando, l’integrazione con il resto del quartiere prosegue. Non parlerei di gentrificazione, ma della possibilità di offrire agli abitanti di un’area prima marginale nuove opportunità, culturali ed economiche. Qui prima non c’era nulla, oggi è il quartiere a più intenso sviluppo sociale di Varsavia”.

In un capannone poco più avanti, la fotografa e stilista Isabel March è nel pieno di un servizio fotografico per il calendario di un’azienda. Tema: la donna futurista. Una modella a seno nudo ammicca sensuale nell’obiettivo, una Mercedes nera d’epoca fa da sfondo al set, il vapore artificiale ricrea atmosfere torbide da anni Venti. Isabel scatta, come in trance, una foto dietro l’altra, fino a quando, esausta, poggia a terra la fotocamera e spiega perché ha scelto Varsavia: “Vivo a Parigi e lavoro in tutto il mondo ma sono nata a Poznan e mi piaceva poter creare un set nel mio paese. Sono venuta a Varsavia, nella Soho Factory, e ho trovato l’ambiente ideale per quel che avevo in mente. Conoscevo il luogo solo di fama, è di moda negli ultimi tempi, sempre più utilizzato per produzioni e fotoshooting. Si susseguono sfilate, concerti, mostre, eventi di ogni genere, è magnifique”.

L’altro motivo che ha portato Isabel March a scattare a Varsavia sono i costi di produzione, più bassi rispetto a quelli parigini.

Ma questo aspetto è sempre meno decisivo nella scelta di puntare sulla Polonia. Prima del doppio colpo arrivato da pandemia e guerra russa in Ucraina l’economia è cresciuta ininterrottamente per anni, schivando le altre crisi che negli anni Dieci hanno stravolto il resto d’Europa. E assieme al benessere sono cresciuti anche i salari. Il lavoro costa ancora un po’ meno che a ovest ma nella decisione di investire qui conta sempre di più l’opportunità di avviare progetti in un ambiente favorevole all’impresa (privata o pubblica che sia), che offre manodopera qualificata e regole certe.

Certo, la trasformazione di Praga è lenta, graduale e a volte sofferta. Sono almeno tre lustri che si parla di riqualificazione e gentrificazione di Praga, paventando l’arrivo a frotte di artisti, hipster e speculatori immobiliari e finora la cosa è accaduta solo a metà.

È ovvio che la scommessa sul futuro della Polonia non si giochi solo sulla riqualificazione di un quartiere della sua capitale come Praga, così come è vero che le prestazioni economiche non sono l’unico metro su cui misurare il progresso complessivo di un paese. Ma se la trasformazione di Praga avrà successo, sarà un tassello importante dell’intero mosaico.

(Seconda e ultima parte del racconto di Pierluigi Mennitti; la prima parte è qui)

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