Una missione viziata da evidenti limiti nelle regole d’ingaggio e addirittura nei numeri, del tutto insufficienti e assai inferiori rispetto agli standard di altre missioni internazionali. È l’impietoso ritratto di Unifil 2 delineato dall’ambasciatore Stefano Stefanini, già consigliere diplomatico del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e rappresentante permanente d’Italia presso la Nato, che in questa intervista a Start Magazine non invoca però un ritiro dei militari ma semmai un nuovo accordo complessivo tra gli attori coinvolti, Hezbollah incluso.
Che cos’è che non ha funzionato nella missione Unifil e nella risoluzione 1701?
Un fatto molto semplice: la risoluzione 1701 non è mai stata applicata, e quindi Unifil non è mai stata in condizione di adempiere alla funzione che le era stata affidata ovvero assicurarsi che la fascia di territorio ad essa affidata non divenisse teatro di “atti ostili”.
Qual è il problema più grave che è conseguito da questi limiti?
Unifil non ha impedito a Hezbollah di installarsi in quell’area e di creare avamposti e rampe di lancio oltre ai tunnel a partire da cui i militanti hanno continuato a punzecchiare Israele in tutti questi anni. Ma questo non è colpa dei militari Unifil che non avevano né le funzioni né il mandato né, se per questo, le capacità per intervenire.
Un problema di regole d’ingaggio, dunque?
Il problema fondamentale è che la risoluzione 1701 definisce un obiettivo, ossia l’interdizione di quello spazio a Hezbollah anzitutto attraverso la collaborazione con le forze armate libanesi, e poi naturalmente alle forze armate israeliane, ma non specifica come, il modo in cui farlo. Per essere più precisi, non sono previste regole d’ingaggio che si oppongano alla presenza armata delle milizie.
C’è insomma un rilevante problema a monte?
Sì, un problema comune a tutte le missioni Onu che si sono succedute negli ultimi trent’anni, che hanno sempre avuto regole d’ingaggio molto vaghe. Tutto dipende dal fatto che ci sono attori specialmente non statali che violano sistematicamente le prescrizioni, e dalla assenza di strumenti con cui gestire la conflittualità che ne consegue.
Ma allora come si risponde a chi polemizza con la missione Unifil sostenendo che quei militari sono ora uno scudo umano per Hezbollah ed andrebbero ritirati immediatamente?
Ritirare i soldati non è un’opzione realistica anzitutto perché Unifil ha delle basi e installazioni militari che non si possono abbandonare dall’oggi al domani. A chi lascerebbero infatti queste strutture? A Hezbollah? A Israele? È uno scenario cui forse bisognava pensare mesi fa; farlo ora equivarrebbe a una rotta con tutte le conseguenze sul prestigio e l’immagine delle Nazioni Unite.
Ma allora come si rilancia Unifil? Che requisiti dovrebbe avere una Unifil 3?
Non vedo alternativa al negoziare con Hezbollah attraverso le autorità libanesi un nuovo accordo complessivo che ribadisca l’impegno a lasciare libera quell’area. Solo così Unifil può rivelarsi utile, altrimenti bisognerebbe giungere alla conclusione che sotto nessuna condizione la missione è in grado di funzionare. Se vogliamo è anche una questione di numeri.
Di effettivi intende? 10mila uomini sono pochi?
Quello di Unifil è un numero di effettivi non proporzionato rispetto alle dimensioni delle milizie di Hezbollah. Quando la Nato lanciò in Bosnia la missione IFOR entrò con 60mila uomini. 10mila uomini con una catena di comando molto labile e appartenenti a decine di forze armate diverse che non hanno la stessa uniformità operativa dei Paesi Nato rivelano tutti i limiti di Unifil 2.