La grande mietitrice americana colpisce ancora, centrando stavolta il bersaglio grosso.
Con due missili Helfire lanciati da un drone della Cia, è stato eliminato l’altro ieri in un quartiere residenziale di Kabul, nel rifugio evidentemente non così sicuro garantito dai talebani, il leader di al-Qa’ida Ayman al-Zawahiri, che all’epoca degli attentati dell’11 settembre 2001 era il vice di Osama bin Laden.
Lo ha annunciato ieri sera il presidente Biden in un discorso alla nazione nel quale non ha attribuito a nessuno in particolare il merito dell’operazione, sebbene il riferimento risultasse chiaro dal suo elogio alla comunità dell’intelligence che con tenacia e perseveranza in questi oltre vent’anni di jihad contro l’Occidente ha dato la caccia a Zawahiri e agli altri terroristi ovunque si trovassero.
L’organizzazione fino a ieri capeggiata dal medico egiziano era ormai una pallida ombra di quella che, negli anni della leadership di bin Laden, non solo si espanse in tutto il mondo ma fu in grado di colpire ripetutamente i suoi nemici, inclusa l’America ferita mortalmente non solo dagli attentati kamikaze dell’11 settembre, ma anche nelle sue ambasciate di Nairobi e Dar es Salam tre anni prima.
Ormai eclissata dalla fama dello Stato islamico, al-Qa’ida si era quasi ridotta ad una sigla minore nel panorama del jihadismo globale. In ogni caso, con Zawahiri, esce di scena un pericoloso terrorista che, nelle vesti di ideologo della causa dei martiri di Allah, aveva aizzato contro l’Occidente migliaia di musulmani illusi di aver trovato, nella guerra santa, una via per redimere le loro terre dalle piaghe dell’ingiustizia.
Ma il jihadismo rappresenta proprio il parossismo dell’ingiustizia, con la sua visione macabra e distorta della società che giustifica l’assassinio, la schiavitù, la guerra, e che ben poco fa per promuovere sviluppo, cultura e pace in una regione difficile come il Grande Medio Oriente.
Se fosse stato catturato vivo, Zawahiri avrebbe dovuto rispondere personalmente di parecchie stragi da lui architettate. Invece lo si è dovuto stanare a Kabul, dove viveva protetto da quei talebani che negli accordi di Doha presi con gli americani nel 2020, premessa alla loro conquista del potere dell’anno dopo, avevano giurato di recidete i legami con le organizzazioni terroristica.
Con lo strike del 31 luglio, Washington ha centrato due bersagli: un simbolo della sovversione islamica globale e armata, e un regime che pensava di essersi guadagnato l’impunità dopo l’ignominiosa fuga USA dell’agosto dell’anno scorso.