Il programma di Trump presenta una visione personalistica caratterizzata da due elementi chiave: il sostegno totale a Israele, anche per quel che riguarda la questione palestinese e la Cisgiordania, e il rafforzamento del framework degli Accordi di Abramo. Questi totem vengono presentati come gli unici strumenti possibili per garantire gli interessi statunitensi e la stabilità nella regione. Una seconda Amministrazione Trump, quindi, dovrebbe agire in continuità con il suo precedente mandato. Innanzitutto, si assisterebbe al ritorno della “massima pressione” nei confronti dell’Iran tramite sanzioni economiche, cui si sommerebbe un’accesa retorica conflittuale e la contemplazione di potenziali e limitate azioni militari. In aggiunta, è lecito attendersi una nuova sospensione del dialogo relativo al dossier nucleare della Repubblica Islamica. Altrettanto importante sarebbe l’utilizzo di una postura pragmatica volta al raggiungimento di benefici reciproci nei rapporti bilaterali con le principali leadership regionali: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Turchia. Infine, è prevedibile una netta chiusura su temi quali l’immigrazione proveniente dall’area e che sarà affiancata al tentativo di disimpegno regionale delle Forze Armate Usa (Siria e Iraq in primis).
In questo contesto, le scelte assunte dalla nuova Amministrazione saranno legate a doppio filo con l’evolversi degli eventi regionali, tra cui lo scontro tra Israele e i palestinesi in Cisgiordania, e la più ampia contrapposizione tra Tel Aviv, Teheran e i proxy mediorientali di quest’ultimo, ossia Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, Houthi in Yemen e le milizie filo-iraniane in Siria e Iraq. Questa guerra regionalizzata, dunque, rischia di mettere una pietra tombale sul sistema politico e di sicurezza del Medio Oriente partorito dalla Casa Bianca con gli Accordi di Camp David del 1978. In tale quadro, Israele punta a muoversi non come pedina, ma come promotore dei propri interessi e di quelli degli Stati Uniti. Tuttavia, anche il legame israelo-statunitense ha subito duri colpi e spetterà alla nuova Amministrazione il compito di ristabilire il clima antecedente alla crisi scatenata dal 7 ottobre.
Di fatto, nella prospettiva mediorientale degli Stati Uniti, il timore più grande risiede nell’assistere inerti e senza alcuna possibilità di incidere al precipitare incontrollato della situazione tra Israele e Iran, magari nel momento di vuoto generato tra il post-voto e il prossimo insediamento di un’Amministrazione non ancora operativa, nel gennaio 2025. Una situazione che potrebbe cambiare le dinamiche di area, specie se gli Stati Uniti verranno coinvolti in una guerra. Ad oggi, questa appare come un’opzione da non escludere, dato il coinvolgimento della Casa Bianca nell’economia del conflitto in favore di Israele. Una condizione certificata, anche di recente, dall’invio di mille soldati statunitensi nell’avamposto congiunto “Sito 512” nel Negev, a Her Qeren, distante appena una trentina di chilometri dalla Striscia di Gaza, insieme all’installazione di un Terminal High Altitude Area Defens (THAAD), il sistema anti-missile balistici a lungo raggio.
Per quanto concerne l’Iran, entrambi i candidati punteranno verosimilmente ad un inasprimento del regime sanzionatorio e all’imposizione di maggiore pressione sulle autorità iraniane, seppur con prospettive parzialmente diverse. In tal senso, malgrado l’obiettivo di fondo degli Usa resti quello del blocco del programma nucleare iraniano, il fronte repubblicano sembra più sensibile al tema del regime change a Teheran proposto da Netanyahu. In quest’ottica, dunque, le sanzioni assumono carattere meramente “punitivo” e mirano a spaccare il fronte interno innescando una crisi di consenso nei confronti dell’establishment al potere. Dal canto loro, invece, i Democratici sembrano percepire ancora il tema delle sanzioni come carta negoziale utile a ottenere concessioni sulle questioni del nucleare e non solo, ma anche su quello, per esempio, dell’allineamento crescente tra Teheran e Mosca. Per Trump, inoltre, l’opzione militare limitata e diretta, finalizzata a colpire i siti del programma nucleare iraniano e gli esponenti della Forza Quds nel Paese e nella regione, resta sul tavolo. Harris, invece, sembrerebbe ispirata a un approccio più cauto sul tema e appare temere maggiormente un coinvolgimento iraniano diretto nelle ostilità regionali. Entrambi i candidati, infine, subiranno comunque la forte pressione israeliana affinché gli Stati Uniti accettino un ruolo maggiore nell’azione di contrasto, politica e militare, alla Repubblica Islamica dell’Iran. A tal proposito, il Governo Netanyahu sarebbe probabilmente più in linea con un’amministrazione repubblicana, come dimostrato anche dal buon andamento dei rapporti tra i leader emerso negli ultimi mesi.
Allo stesso tempo, che si tratti di Trump o di Harris, il prossimo Presidente degli Stati Uniti dovrà forzatamente elevare ruolo e status della potenza araba più importante della regione, l’Arabia Saudita, in qualsiasi discorso relativo alla stabilità in Medio Oriente. E in questo quadro è fondamentale tratteggiare una qualche forma di riconoscimento anche per la questione palestinese, in modo da accogliere i pressanti voleri di Riyadh. Una formula necessaria per dare forma a quella cooperazione rafforzata tra mondo arabo e Israele, convenzionalmente riconosciute negli Accordi di Abramo e ritenute come una fondamentale assicurazione politica e di sicurezza per qualsiasi leader statunitense. Ecco perché, in estrema sintesi, al di là di Trump o Harris, è presumibile immaginare una scarsa intenzione nel cambiare le politiche in Medio Oriente in favore di una “conservazione”, per quanto possibile, di posizioni e ruoli da parte di Washington nella regione.