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Turchia Israele

Turchia, fine dell’Erdoğanomics?

L'analisi di Daniele Meloni

Il 29 ottobre la Turchia ha celebrato il 95esimo anniversario della Repubblica nata nel 1923 con l’inaugurazione del nuovo Istanbul Airport, destinato a sostituire l’Atatürk come primo aeroporto cittadino, e uno dei più grandi hub al mondo.

L’Istanbul Airport si trova a 20 chilometri dal centro della città sul Mar Nero e, a pieno regime, si estenderà su una superficie superiore a quella di Manhattan. I vertici dello Stato turco hanno affermato che il progetto prevede la presenza di 100 milioni di passeggeri annualmente entro il 2020, per arrivare successivamente a 200 milioni nel 2029, quando tutte le 6 piste di decollo saranno ultimate.

Un consorzio di 5 imprese di costruzioni locali denominato IGA ha ottenuto l’appalto per il progetto, con un’offerta da 25 miliardi di dollari, comprensivi dei diritti per operare nelle facilities dell’impianto per 25 anni. Il design per quello che è il più grande terminal al mondo – esteso su 1,3 milioni di metri quadrati – è stato curato dalla londinese Grinshaw Global. Avrà 228 punti di controllo dei passaporti, 10mila metri quadrati dedicati al retail e 55mila duty free.

Le ambizioni in grande stile rimangono, anche se la Turchia sta vivendo una fase difficile della sua recente storia, soprattutto a livello economico.

Lo scorso giovedì la banca centrale turca ha comunicato che manterrà invariato al 24% il tasso di interesse stabilito lo scorso mese di settembre dopo il run on the lira che ha visto la valuta nazionale turca perdere il 40% rispetto al dollaro dall’inizio del 2018. L’obiettivo quello di raggiungere la stabilità dei prezzi e limitare un’inflazione ormai giunta al 24,52%, cioè ai livelli più alti dall’agosto 2003.

Inflazione che va a colpire direttamente il carrello della spesa dei cittadini turchi, minando la base del consenso popolare di Erdoğan e dell’AKP.

Alcuni dati sono emblematici: settembre il cibo e le bevande non-alcoliche hanno registrato un aumento tendenziale del 27% rispetto alle rilevazioni dell’anno precedente, così come i trasporti del 36%, i prodotti per la casa del 21%, i caffè e i ristoranti del 19%, i capi di abbigliamento e le scarpe del 17% e così via. Ad Ankara è allarme rosso, anche alla luce di quanto successo in passato.

Già, perché lo stesso Erdoğan si fece strada all’inizio degli anni 2000 proprio in un momento di gravissima crisi economica, dopo che i militari, con il “golpe post-moderno” del 28 febbraio 1997, deposero Erbakan e il suo partito del Benessere, attentatori, a loro avviso, della laicità dello stato.

Sulla promessa di maggiori libertà civili ed economiche il Sultano riuscì a coalizzare attorno a sé un vasto consenso che andava dai conservatori ai liberali, e innestandosi sulle esigenze delle nuove classi medie anatoliche tradizionalmente conservatrici nella sfera privata, ma pro-business in quella pubblica. Così nacque il successo dell’AKP. La svalutazione della lira turca fu uno degli strumenti di una politica economica che mirava ad aumentare la vendita all’estero dei prodotti turchi.

Erdoğan è ormai l’unico kingmaker sulla scena politica turca. Nessuno sembra avere l’astuzia e il carisma per emergere come fece lui nel all’inizio degli anni duemila. Ma lo spettro di un ulteriore peggioramento dell’economia potrebbe alienargli le simpatie di chi nel luglio 2016 ha affrontato i carroarmati per difenderlo.

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