Mattia Diletti insegna alla Sapienza, è un esperto di politica americana, ha scritto il libro Divisi per Treccani. Il mondo MAGA è ancora compatto o le sue tensioni interne tra la componente populista e quella tecnocratica iniziano a farsi sentire? Che ruolo ha davvero Steve Bannon? Durante la prima amministrazione sembrava il grande stratega, ora il capo di una opposizione interna, è così?
Allora, sì, si tratta di trumpismi: non c’è un mondo MAGA compatto, ed è ben diverso essere MAGA come semplici sostenitori elettorali, come rappresentanti di alcuni gruppi di interesse, oppure essere al Congresso, nelle istituzioni, o nei media.
Abbiamo visto in modo molto evidente questo conflitto tra i tecnoligarchi e l’ala – chiamiamola così – populista, quella di Bannon, soprattutto subito dopo il primo conflitto tra Musk e Trump. In quell’occasione, i populisti denunciavano gli interessi di Musk e il suo coinvolgimento nell’amministrazione, segnalando un evidente conflitto di interessi.
Va detto, però, che esistono anche altri fronti di questo mondo dei tecnoligarchi che, in questo momento, non sono coinvolti nel conflitto e nella polemica.
Pensiamo, ad esempio, a Peter Thiel di Palantir, che ha una sua forma di ideologia piuttosto bizzarra, ma di estrema destra, e che sta soprattutto stringendo rapporti economici con l’amministrazione Trump su due temi principali: la dimensione del capitalismo della sorveglianza (cioè il fornire servizi di sorveglianza sociale sulla società americana) e l’integrazione fra economia digitale e militare.
Il conflitto interno ai mondi MAGA è stato ancora più evidente sulla questione della politica estera, in particolare rispetto all’Iran, tra i cosiddetti isolazionisti alla Tucker Carlson e i vecchi falchi neoconservatori. In questa situazione, Trump ha in qualche modo assunto una posizione intermedia.
Ci sono poi una serie di oppositori del trumpismo interni al Senato che stanno ostacolando la “Big Beautiful Bill”, questa sorta di legge di bilancio fortemente voluta da Trump, ma che – dopo essersi opposti – si stanno dimettendo.
I veri conflitti, secondo me, inizieranno dopo le elezioni di metà mandato del 2026, se non prima.
L’elettorato trumpiano sembra vivere in quella “sospensione dell’incredulità” che è tipica di certi film di Hollywood: finge di credere che i dazi stiano funzionando, che l’economia non andrà in recessione, che il presidente esporti la pace e non le bombe. Ma fino a quando può reggere?
L’elettorato trumpiano vive in una sorta di sospensione dell’incredulità, perché – nonostante l’impatto mediatico di ciò che accade dall’elezione di Trump possa farci sembrare che sia presidente da cinquant’anni – in realtà sono passati solo pochi mesi. Ancora non si vedono in modo diretto e chiaro alcuni effetti negativi, soprattutto delle politiche economiche della nuova amministrazione.
Il rapporto tra Trump e il suo elettorato si è ormai consolidato da otto anni: è un rapporto quasi da culto, di natura ideologica, costruito anche sulla riattivazione di vecchie correnti culturali, morali e sociali della società americana. Trump si è alleato con quei pezzi d’America che hanno trovato in lui un “federatore” dei risentimenti e delle istanze che sono antiche nella società americana. È un rapporto difficile da scalfire.
Questa fedeltà delle truppe MAGA è un elemento molto interessante, che serve soprattutto a Trump – dal punto di vista sociologico – nei momenti di conflitto elettorale. Garantisce sempre una base di mobilitazione importante e reale, un po’ come il rapporto capo-massa molto solido: regge finché regge, fino a quando non si crea un “contro-entusiasmo” dall’altra parte, una voglia di reagire che nei numeri può superare quella dei MAGA.
Ciò che può davvero danneggiare Trump, però, è la perdita di consenso nelle “zone grigie”: quegli elettori poco attenti, poco interessati alla politica, poco mobilitabili, che si stancano facilmente del loro “campione”. Magari lo hanno votato in un’elezione, ma al giro successivo potrebbero non andare nemmeno a votare.
Secondo me, sarà proprio su questo crinale che Trump potrà perdere le elezioni.
I Democratici non si sono sono mai ripresi dalla sconfitta, eppure adesso a New York sembra emergere un nuovo tipo di alternativa al trumpismo, quella del candidato sindaco Zohran Mamdani. Cosa c’è di diverso in lui?
I Democratici sono ancora in mezzo al guado, perché c’è una spaccatura profonda all’interno del Partito Democratico, che in realtà è precedente persino all’elezione di Trump. Si tratta, in modo abbastanza classico, di una contrapposizione tra una linea più moderata – soprattutto riguardo all’alleanza con il mondo finanziario ed economico – e una parte del partito più radicale. Questo conflitto se lo portano avanti ormai da tempo.
C’è anche un’altra questione importante: il ringiovanimento della classe dirigente. È evidente che c’è una domanda di volti nuovi, mentre alcuni attori della politica democratica sono ormai figure consumate, come ha dimostrato la sconfitta di Cuomo nelle primarie del Partito Democratico per la carica di sindaco.
Secondo me, non esiste una ricetta unica per il futuro del Partito Democratico. C’è una forte richiesta di “rottamazione”, per usare una metafora italiana. Mamdani, ad esempio, ha vinto a New York con una piattaforma radicale e una biografia altrettanto radicale, ma non è detto che questa formula funzioni ovunque. In New Jersey, invece, ha vinto una candidata moderata, ma nuova, un’ex pilota di elicotteri che, con proposte meno radicali rispetto a quelle di Mamdani, ha comunque affrontato lo stesso tema: l’”affordability”, cioè la possibilità per gli americani di vivere con il proprio stipendio senza essere sempre sull’orlo della crisi.
Il 60% degli americani – come ricorda sempre Bernie Sanders – vive infatti di stipendio in stipendio, mese per mese: ricevono lo stipendio, lo finiscono o si indebitano. Zhoran Mamdani ha capito che questa esigenza è molto sentita, soprattutto nella classe media di New York, e rappresenta anche un volto nuovo e molto efficace dal punto di vista comunicativo.