A decidere sull’Ucraina sono lo Stato-partito della Russia (che da due anni l’ha aggredita militarmente riducendo il paese ad un sacco di macerie e centinaia di migliaia di morti, mutilati e feriti) e gli Stati Uniti.
Fino all’elezione di Trump questi ultimi sono stati il maggiore fornitore di armi all’esercito di Kiev. Lo sono sempre stati della Nato. E lo sarebbero anche se i membri di quest’ultima, accogliendo le minacce della Casa Bianca, destinassero il 2-5% del loro Pil alla difesa. Washington continuerebbe infatti ad essere il principale venditore di armamenti a questa versione nuova della vecchia alleanza militare.
Al pari di Putin e del cinese Xi Jinping, Trump non ama i regimi retti da ordinamenti liberal-democratici come quelli dell’Europa occidentale. Apparentemente democrazie parlamentari, vivono sul potere di influenza dell’Esecutivo. Sono entrate ormai in un cono d’ombra forse definitivo.
Si deve convenire con Vance (il vice di Trump) quando ha voluto precisare che alla Casa Bianca è tornato – a fare il bello e il cattivo tempo – non uno statista, ma uno sceriffo amante di pose teatrali e buffonesche.
Questa volta chi accusa gli Stati Uniti di una politica imperialistica gretta, sordida, interessata più agli affari che ai popoli, ha mille ragioni da vendere.
All’interno dello stesso Stato federale vengono devastati i diritti elementari dei cittadini. È esecrato e punito il dissenso nelle università come nella magistratura e negli organi amministrativi. Si minaccia l’occupazione della Groenlandia a mano armata. All’Unione europea viene riservato, da parte dell’immobiliarista asceso alla presidenza degli Usa, un lessico in uso nei retrobottega. Si premia solo il più sperticato e miserabile conformismo.
C’è solo da attendersi il colpo di schiena, cioè la rivolta del popolo americano per aver affidato la propria rappresentanza ad un personaggio spesso da operetta. Imitando Hitler e accreditando un giorno sì e un giorno no una politica di alti dazi (che aumenta l’onda dell’inflazione e colpisce i ceti più poveri del suo stesso elettorato) pensa di poter dominare il mondo.
Temo che in un passato che non sarà il mio si potrà parlare di complotti, intrighi, falsi e apocrifi, che hanno circolato in questo periodo. All’opera c’è stata una vera e propria Cancel Culture.
Su di essa torna la sempre vivace, mai banale, rivista fiorentina Diorama, con un saggio del direttore[1].
Si sarebbe cercato di modificare il percorso storico dell’umanità per nascondere, neutralizzare o ridurre il peso dell’illuminismo e esaltare dei veri e propri falsi storici. Mi riferisco, per esempio, al carattere progressivo del comunismo, alla riformabilità della sua prassi terroristica e mistificatrice nel diminuire sperequazioni e disuguaglianze tra gli uomini.
Uno dei nostri maggiori storici, Adriano Prosperi, in una recente, ma preziosa, raccolta di saggi[2] si sofferma su diverse operazioni per offrire alla nostra percezione nel presente – lungo un percorso che dal Seicento arriva al Novecento – l’immagine di una storia in cui è eliminata la violenza. Oppure ci si è serviti dell’invenzione dei plateali falsi storici per delineare un percorso storico dell’umanità assai imbellettato.
La ricostruzione storica di Prosperi si concentra in particolare su alcuni di questi episodi più eclatanti: la donazione di Costantino; la profezia di Giovanni Nanni su luogo e data dell’apocalisse prossima ventura; i reperti archeologici finti – ad opera dei moriscos – di Granada (che dimostrerebbero l’esistenza di una comunità di arabi cristiani nella Spagna prima di san Giacomo). Chiude la narrazione storica di Prosperi il saggio sui Protocolli dei savi anziani di Sion. Si è trattato di un modello di falsificazione che influenza l’antisemitismo anche odierno.
Districare il vero dal falso e dal finto, che sono fittamente intrecciati in una grande trama nella stessa vita quotidiana, dovrebbe essere uno dei maggiori compiti degli storici. Essendo ogni conoscenza soggettiva, come può lo studioso del passato essere rappresentato come l’ideale cavaliere della verità?
Lungo questo insidioso e tortuoso crinale scorrono le pagine di Prosperi. Poiché aborre dal pirronismo (l’arte di sfumare certezze e dubbi bandendo il carattere perentorio di ogni affermazione), egli si ritrova circondato da domande, dubbi, interrogativi. In gran parte uguali a quelle che da circa un decennio lo hanno reso pensoso, inquieto[3].
Dunque, i tentativi di modificare la storia umana sono vecchi esercizi che Trump ha rinnovellato.
Putin non è stato da meno. Tra il 1985 e il 1994, con le guerre nei Balcani e le tensioni interne in Cecenia e Abcasia si ebbe l’alba e il rapido tramonto del tentativo di riformare il comunismo, di dare vita ad una sua modernità[4]. Ad essere travolti furono anche i vassalli europei del potere imperiale di Mosca.
Il crollo della speranza fu duplice. Si dissolveva l’idea di rimettere in circuito una carta come quella della modernità socialista[5], ma anche l’investimento fiduciario fatto nel passaggio – un po’ mitico e scanzonato – al capitalismo nella transizione da un modo di produzione all’altro. Quasi che il grande duello col comunismo fosse una partita di giro, un ballo per principianti e non un’alternativa storica.
L’esito fu il naufragio, la catastrofe della centralità di Mosca negli equilibri internazionali. Da uno dei maggiori protagonisti del mondo bipolare alla progressiva riduzione da grande potenza a potenza regionale.
Con una differenza notevole, in quanto poteva esportare grandi tonnellate di petrolio e di gas, e disponeva anche di una refurtiva di bombe atomiche e di missili.
Il fallimento del comunismo[6] precede l’ascesa e il consolidamento di un autocrate come Putin[7]. E rende non trascurabili le ipotesi del direttore di Diorama letterario.
La fiducia riposta nella vitalità e nella capacità di espandersi del boscevismo si incarnò nel sogno secolare di porre fine alle diseguaglianze e ne scaturì una grande idolatria.
Ad esserne aedo fu a lungo l’economista Piero Sraffa che non spese mai una parola di critica del regime totalitario e repressivo in auge in Urss. Per una trentina di anni ne fu affascinato un suo grande e sfortunato compagno torinese, Antonio Gramsci.
Per rendersene conto c’è un dato di fatto. Infatti, curiosamente, nella storiografa comunista (e non solo in questa) la riflessione sui rapporti tra Piero Sraffa, Gramsci e il Pci, ha subito una sosta, se non un arresto vero e proprio. Direi che sia avvenuto dopo un’attenta rilettura dell’analisi dedicata da Gramsci alla rivoluzione di ottobre in Russia[8].
Se è un notevole passo avanti aver configurato – come ha fatto Silvio Pons – il giudizio gramsciano sulla fondazione e sullo sviluppo dell’Urss come una forma di neo-bonapartismo (per usare il lessico di Marx),nessuno ancora oggi, tra i dirigenti politici e gli stessi studiosi comunisti, ha osato spingersi oltre.
Intendo dire che, tra i molti collaboratori e nello stesso comitato scientifico della Fondazione Antonio, di Gramsci non mi pare che si sia mai voluto rappresentare la conquista del Palazzo d’Inverno e la gestione successiva del potere per quel che in realtà era stato, una forma di feroce dispotismo. Si arriva a Putin da Lenin.
Tantomeno si è voluto sottolineare che questo esito fu manifesto fin dalle origini. Nel 1918 si ebbe lo scioglimento, ad opera di Lenin, dell’Assemblea costituente e la persecuzione della maggioranza liberamente eletta (cioè i menscevichi).
Fu l’inizio di un lungo processo che attraverso passaggi diversi (come quello riformatore di Gorbaciov) arriva fino alla recente feroce autocrazia putiniana. Ad esso si può dare solo un nome: il dispiegamento del maggiore e più crudele totalitarismo di sinistra. Fu una sorta di modello imperiale che sarebbe stato replicato dal sistema dei vassalli al centro dell’Europa come in Cina, a Cuba, in Vietnam, in Corea, in America latina.
Aveva anticipato aspetti e forme cruciali di quel volto demoniaco del potere che furono – parimenti a quella del bolscevismo – le dittature di estrema destra, il fascismo e il nazismo.
Nel non avere saputo cogliere questo elemento essenziale risiede la fotografia della prassi spesso inesauribile (sul piano della ricerca storica) del fervore conformistico di cui si sono fatti carico non di rado con gioiosa condiscendenza gli intellettuali comunisti e i loro alleati (a cominciare a lungo dai socialisti).
Si è trattato di un micidiale e inenarrabile allineamento alle ragioni, ai riti, alle doppiezze, alle molteplici combinazioni della politica.
Si può negare ancora che sia stato anche la più spudorata subordinazione, cioè il più macroscopico esempio di trahison des clercs, e assenza di resistenza, se non di spirito di critica e di rivolta, a fronte di un’organizzazione politica (il Pci) e del suo referente internazionale (l’Unione sovietica)?
Un grande convegno, di analisi ed espiazione per i molti errori commessi, e le (poche) prove di autonomia e di coraggio offerte dalla Fondazione Antonio Gramsci, che gode del sostegno finanziario dello Stato (quindi di tutti i cittadini italiani), dovrebbe assumerlo tra i più urgenti programmi di lavoro.
++è
[1] Marco Tarchi, L’inganno, gennaio-febbraio 2025, n. 383, pp. 1-3. [2] Adriano Prosperi, Cambiare la storia, Einaudi, Torino 2025. [3] Mi riferisco a opere come Un tempo senza storia (del 2121) e Una rivoluzione passiva (del 2022), sempre pubblicati da Einaudi. [4] Si veda la ricostruzione dettagliata in Alexander Etkind, La Russia contro la modernità, Bollati Borighieri, Torino 2025. [5] Rimando al bel saggio, un capolavoro di sintesi, di Andrea Graziosi, Il futuro dell’Europa tra instabilità globale e nuove sfide geopolitiche, Il Foglio, 12 marzo 2025. [6] Ibidem. [7] Ad anticiparne lo scivolamento progressivo nell’autoritarismo è stato Victor Zaslavky nei saggi pubblicati in suo onore, Società totalitarie e transizione alla democrazia, a cura di Tommaso Piffer e Vladislav Zubok, il Mulino, Bologna 2011. [8] Mi riferisco al saggio di Silvio Pons, Antonio Gramsci e la rivoluzione russa: una riconsiderazione (1917-1935), “Revista Brasileira de História”, vol. 37, 2017, n. 76, in cui viene approfondita la prospettiva analitica inaugurata da un saggio di Giuseppe Vacca.