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Arnese

Tria (e non solo) trita il Recovery Plan

Fatti, nomi, numeri, curiosità e polemiche. I tweet di Michele Arnese, direttore di Start, su Recovery Plan e non solo

 

COMMENTINI SUL RECOVERY PLAN

 

QUISQUILIE & PINZILLACCHERE

ESTRATTO DELL’ANALISI DELL’ECONOMISTA EX MINISTRO DEL TESORO, GIOVANNI TRIA, SUL SOLE 24 ORE:

Leggendo la nuova bozza del PNRR approvata dall’ultimo Consiglio dei ministri, la prima preoccupante sensazione è che troppe pagine delle oltre 160 di cui si compone la bozza descrivano bisogni e non progetti. Abbiamo una lunga sequenza di ambiti di intervento e di corrispondenti affermazioni che si investirà in questi ambiti. La seconda preoccupante sensazione è che l’allocazione di risorse alle sei missioni previste dal piano, e alle componenti di cui esse si compongono, non derivi da una stima di costi progettuali e da una selezione dei progetti in base al rendimento atteso in termini di benefici e risultati attesi, sia relativi al singolo progetto sia derivanti dal contributo al rendimento dell’intero piano in termini di crescita. La sensazione è che si tratti più che altro di vincoli di spesa, cioè di una ripartizione di risorse disponibili. In altri termini, si definisce la copertura finanziaria. Questa sensazione dipende anche dallo stupore per la rapidità, pochi giorni, con la quale da una bozza all’altra questa allocazione di risorse sia cambiata: non si spostano facilmente decine di miliardi da un ambito all’altro se dietro ci sono progetti veri, strutturati. Ciò non toglie che va riconosciuto che l’aumento previsto della quota di risorse destinate, a priori, agli investimenti e della quota di risorse europee destinate a finanziare programmi addizionali rispetto a quelli già previsti rappresenta un miglioramento di approccio al Piano rispetto alle bozze precedenti.

Queste due preoccupanti sensazioni sembrano confermare che il motivo per il quale in Italia non si riescono a varare investimenti pubblici risiede nel fatto che vi sono non solo problemi di attuazione ma anche, a monte, problemi seri di capacità di progettazione. Non perché manchino competenze ma perché sono stati smantellati i luoghi dove si deve programmare e progettare, mentre si è costruito, quasi a compensazione, un sistema di attuazione e controllo paralizzante. Per questo motivo le proposte di investimento dovrebbero essere accompagnate dai piani di riforma, che significa essenzialmente cambiare le regole del gioco per tutti gli attori, pubblici e privati. Le riforme della pubblica amministrazione, della giustizia, del welfare significano questo ai fini del Recovery Plan.

La terza preoccupante sensazione è che la lunga lista di interventi adombrati non formi un piano di sviluppo, non dia il senso della loro coerenza e del progetto complessivo di sviluppo industriale e sociale in cui si inseriscono. Si tratta di una questione cruciale perché è la chiarezza e concretezza di visione che può smuovere, nel lungo periodo di gestazione e attuazione dei progetti pubblici, gli investimenti privati dando loro un quadro chiaro di riferimento. Gli investimenti pubblici non servono solo ad alimentare domanda ma devono servire ad aumentare il rendimento degli investimenti privati, e senza di questi non ci sarà crescita sufficiente a rendere sostenibile la montagna di debiti accumulati.

La quarta preoccupante sensazione è che ancora, dopo circa sette mesi, non sia definito chi deve fare cosa. Non parliamo delle fantomatiche cabine di regia ipotizzate al di fuori dell’amministrazione pubblica, che spero siano tramontate perché chiaramente riconosciute da quasi tutti gli osservatori come strumento di controllo politico, per di più inefficiente. Non parliamo neppure di chi dovrà coordinare e controllare l’esecuzione dei progetti, quando questi ci saranno, ma parliamo di chi deve redigere il piano unitario valutando, e validando, per le singole componenti gli obiettivi, la pertinenza, gli strumenti di attuazione, i benefici diretti e indiretti. Quale è la struttura specifica, in quale ministero, sotto quale responsabilità (quella politica generale è del Consiglio dei ministri nel suo complesso). In altri termini, chi firmerà i documenti da mandare a Bruxelles, oltre che il Presidente del Consiglio?

Abbiamo parlato di sensazioni, seppure preoccupanti, perché non è ancora chiaro se, a tre mesi dalla data in cui l’Italia è attesa presentare il proprio piano alla Commissione europea, abbiamo di fronte una scatola vuota o una “black box”. Nel senso che – in attesa di conoscere le schede progettuali e le valutazioni specifiche di obiettivi, risultati attesi e strumenti di attuazione – non sappiamo cosa ci sia dentro la scatola di cui abbiamo visto l’involucro. Forse c’è tutto e, per imperscrutabili motivi, si conserva il segreto. Forse, semplicemente, il lavoro è in corso e c’è bisogno di ulteriore tempo ed è inutile polemizzare sui ritardi.

Ma qui si pone la madre degli interrogativi: che cosa ha approvato il Consiglio dei ministri? Cosa approverà il Parlamento quando il PNRR gli verrà sottoposto? Una “black box”? Abbiamo da tempo sostenuto in queste pagine che la credibilità di base, quindi politica, del PNRR dipenderà dalla sua condivisione da parte di tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per il semplice fatto che la sua attuazione passerà attraverso diverse legislature e governi. Ma questa condivisione si realizza se vengono discusse e condivise le varie fasi di definizione sia della strategia sia della sua articolazione progettuale. E deve essere condivisa la struttura di controllo statale dell’intero piano, che deve assicurare la continuità dell’azione pubblica. Colpisce che la “black box”, come con ottimismo l’abbiamo definita, non sia allo stato delle cose conosciuta e condivisa neppure dalle forze politiche di maggioranza, almeno di quella esistente fino a ieri. Non abbiamo visto coinvolgimento neppure delle amministrazioni locali e delle parti sociali che, come il Parlamento, sono state sostanzialmente ignorate. Insomma, dietro il Piano non c’è il Paese.

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