Budapest, agosto 2003. Mi sono appena stabilito in un appartamento nel Quinto Distretto, pieno centro di Pest, che poi significa centro della capitale intera e di tutta l’Ungheria. In senso geografico anche centro dell’Europa peraltro, essendo più o meno a metà strada tra Lisbona e Mosca.
A un isolato da casa c’è il lungodanubio con vista scenografica sulla sponda opposta, quella di Buda, verso il il Palazzo Reale, il bastione dei pescatori e la guglia gotica del campanile della chiesa di Mattia Corvino, una veduta che i turisti asiatici, americani ed europei che invadono la città tutto l’anno prendono d’assalto con le loro macchine fotografiche digitali. Se mi affaccio da una delle finestre del mio appartamento sulla strada di casa, perpendicolare al lungodanubio, posso guardare quella scenografia anche senza muovermi di un passo, confortevolmente vestito in tuta o in pigiama, a seconda dell’ora.
A due isolati da casa c’è la piazza Roosvelt, il cui nome oggi hanno cambiato in Széchenyi István tér, piazza István Széchenyi, dal nome del conte innovatore di idee liberali che per primo fece costruire un ponte carrabile sul Danubio. La toponomastica di Budapest è in perenne evoluzione, i nomi di vie e piazze vengono cambiati a seconda del colore ideologico dei governi che si susseguono. Sulla piazza è il Palazzo dell’Accademia, un edificio neoclassico anche questo oggetto di innumerevoli scatti fotografici da parte di turisti alieni. Sulla stessa si affacciano anche due palazzi di architettura razionalista costruiti nell’ultimo decennio del regime comunista, uno è un albergo gestito dalla catena franco-internazionale Accor con marchio Sofitel, l’altro è in questo 2003 temporaneamente chiuso e recintato, ci stanno lavorando per eliminare la montagna di amianto con cui gli ingegneri del regime lo avevano farcito.
Oltre al Palazzo dell’Accademia e ai due citati edifici transcomunisti (utilizzo questo neologismo da me coniato per definire tutto quanto creato nell’Ungheria degli anni Ottanta del ventesimo secolo, ultimo stadio dell’era kadarista), la scenografia dell’allora Piazza Roosvelt è completata dal Palazzo Gresham e dal Danubio, con il Lánchíd, il Ponte delle catene, che lo attraversa per guadagnare l’altra riva, quella di Buda. A chi ha studiato un pò di economia il cognome Gresham dice qualcosa (“la moneta cattiva scaccia la moneta buona”), ma Thomas Gresham nacque e visse molto prima della costruzione di questo edificio. Il banchiere britannico fu infatti uomo del sedicesimo secolo, mentre l’edificio che domina la piazza fu costruito nei primi anni del Ventesimo secolo in stile secessione (“liberty” diremmo in italiano o “Art Nouveau” in francese) dalla Gresham Life Assurance Company di Londra, per ospitarne gli uffici per l’Impero Austro-Ungarico e le famiglie dei loro dipendenti trasferite dal Tamigi al Danubio. Una delle tante storie del periodo d’oro della Budapest di successo borghese e capitalista, a cavallo fra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Il ponte voluto dal conte Széchenyi, il Cavour del Danubio come si usa dire, è impressionante, specie quando di sera è illuminato suggestivamente. Quando è tarda sera, e fino alla mezzanotte, all’ora cioè in cui spengono l’illuminazione dei monumenti della prospiciente Buda, mi piace sedere dal lato Pest guardando il Palazzo Reale e il Bastione dei Pescatori.
Qualche passo indietro (due isolati dalla piazza, come dicevo) e torno allo stabile in cui abitavo in quell’agosto del 2003. Sarà forse un segno del destino per me, che sono italiano e meridionale, ma fatto sta che l’edificio in cui abito si trova in una via intitolata a Lajos Tüköry. Lajos Tüköry fu infatti persona di idee internazionaliste mazziniane e kossuthiane che combatté come volontario agli ordini di Garibaldi proprio nella spedizione dei Mille che liberò l’Italia del Sud dal dominio borbonico. Morì in Sicilia, e a Palermo mi pare di ricordare che a lui sia stato intitolato addirittura un corso.
Altre strade della parte settentrionale del Quinto Distretto, detta Lipotvaros (la città di Leopoldo) sono intitolate agli eroi ungheresi delle rivolte antiasburgiche innamorati dell’Italia e agli eroi del risorgimento italiano innamorati dell’Ungheria: a pochi passi da casa c’è anche una strada intitolata a Garibaldi, e questa è a pochi metri dalla Piazza dedicata a Lajos Kossuth, eroe della rivoluzione antiasburgica del 1848. La bandiera italiana e quella ungherese hanno gli stessi colori, entrambe sono tricolori, con la sola differenza che mentre nella bandiera italiana i tre colori sono disposti in senso verticale in quella ungherese gli stessi colori sono disposti in senso orizzontale. Quella fra Italia e Ungheria è una storia d’amore; qualche volta siamo stati contro (tipicamente durante la prima Grande Guerra) ma più spesso dalla stessa parte, anche se più volte, insieme, dalla parte sbagliata: da quella dei perdenti.
L’edificio in cui abitavo è della metà del diciannovesimo secolo. Ne hanno ridipinto la facciata eliminando il colore grigio-nerastro preesistente. A pochi passi, dalla parte opposta rispetto al Danubio, c’è la Piazza della Libertà dove c’è ancora l’edificio della radio, quello da dove cominciò l’insurrezione dell’ottobre-novembre 1956. Sulla stessa piazza c’è l’ambasciata americana e giardini dove bivaccano di notte e di giorno esemplari di quell’umanità dolente di senzatetto che sta dietro la facciata “perbene” di questa capitale. E anche di quella montante e scintillante delle società di consulenza agli investimenti nell’Europa dell’Est che hanno saltato Vienna per venire a stabilirsi qui. E di quella delle filiali ungheresi di banche straniere con i loro impiegati con il naso all’insù che incrocio nei ristoranti della zona all’ora della pausa
Il portone è di quelli alti, robusti e intarsiati in legno credo di quercia. Se ne apre una sezione e prima di guadagnare scale o ascensore si attraversa un breve corridoio. Entrando sulla destra c’è una porticina. So che dà su un locale dove sono custoditi i bidoni dell’immondizia che gli addetti alla nettezza urbana vengono a prelevare ogni giorno di primo mattino e prima dell’alba. Poco dopo la porticina, sempre sulla destra quindi, c’è una grande bacheca. Le mie conoscenze di ungherese mi permettono di decifrarne il contenuto, escluse alcune parole che poi mi sono premurato di cercare sul dizionario bilingue. La bacheca contiene sotto vetro un foglione ingiallito che espone le regole del condominio. Sono molte di più di quelle della tavola mosaica e vi abbondano prescrizioni che non sono indicative ma perentorie. Lo stile dello scritto è a metà fra austro-ungarici inviti al buon costume e rigida morale comunista. Deve starci là da decenni, ed è singolare che non rechi traccia alcuna di vandalismi; è intatto, coperto da un vetro.
Procedendo nel corridoio a sinistra ha inizio una scala, anzi sarebbe più corretto chiamarla scalone. In marmo con corrimano in legno pregiato e ringhiere in ferro battuto. Fra le varie rampe di scale c’è un vuoto sul quale dà, al piano terreno appunto, un cancello in ferro battuto. Una porta elegante che però oggi dà accesso al niente. Ilona, coinquilina ottuagenaria superstite di altri tempi, mi ha raccontato che prima della guerra in quel vuoto scorreva una cabina-ascensore. “Era rivestita di legno di mogano e aveva un sedile ribaltabile con un cuscino di cuoio. Durante la guerra è finita a pezzi, di legna non se ne trovava facilmente e fu usata per scaldarsi”. Salendo per lo scalone si capisce che era un accesso di rappresentanza agli appartamenti signorili posti ai vari piani. Ai tempi della monarchia e a quelli della reggenza. La servitù, che a quei tempi non mancava, non poteva salire per lo scalone, per le ragazze che venivano a servizio in famiglia dai villaggi della grande pianura il percorso permesso era altro. Stessa regola per i garzoni dei fornitori.
Sempre in fondo al corridoio di ingresso allo stabile, c’è anche un cortile che oggi i più anziani del condominio mantengono volontariamente zappettando la terra e innaffiandovi piante e poi, sul fianco destro e giusto di fronte all’accesso allo scalone, un bel porticato ben illuminato dal quale partono altre rampe di scale. Sono più modeste dello scalone, è di qui che potevano passare “servette e garzoni” ai tempi che furono. E è di qui che si accede al mio appartamento. Le scale menano, piano per piano, a ballatoi che danno accesso a camminamenti a ringhiera affacciati sul cortile e ricordano quelli di certe case di Milano. La cosa non mi sorprende, in fondo Milano e Budapest erano due città sorelle, sorprendentemente simili ed entrambe dominate dagli Asburgo. Quando c’erano per esempio soldi a sufficienza per fare festa sia a Budapest sia a Milano si celebrava cucinando e servendo costolette di maiale o di vitello impanate e fritte, come del resto anche si faceva a Vienna. (1. continua)