“L’istruzione non è memorizzare che Hitler ha ucciso 6 milioni di ebrei.
L’istruzione è capire come è stato possibile che milioni di persone comuni fossero convinte che fosse necessario farlo.
L’istruzione è anche imparare a riconoscere i segni della storia, se si ripete.” (Noam Chomsky)
La storia è maestra di vita ma sovente insegna a pessimi scolari.
Tanto è vero che ne faremmo volentieri a meno, immersi come siamo in quel presentismo totalizzante che ci pervade e ci copre – scrive Marcello Veneziani – come una “cappa” sotto cui tutto si avvolge, si confonde e si dimentica: un segno dei tempi è la prevalente preoccupazione di salvare il diritto all’oblio rimuovendo con disinvoltura il dovere della memoria.
Tanto è vero che da alcuni anni a questa parte la scuola la insegna sempre meno e in modo discrezionale, episodico, frammentato, privandola di quel nesso di continuità che lega gli eventi, oppure fermandosi ad un certo punto perché quella recente è troppo densa di avvenimenti, suscettibile di interpretazioni, legata a residui ideologici sopravvissuti: il programma di studio non la contempla tutta, è quasi paradossale che la seconda metà del ‘900 sia come rimossa dai libri di testo o dai programmi di insegnamento. E così finiamo per vivere il presente senza essere consapevoli o informati degli eventi che l’hanno preceduto e generato, comprese le contraddizioni che pervadono il pianeta e ogni singola esistenza e che non sempre sappiamo leggere con la dovuta motivazione al discernimento.
Eppure milioni di persone tra il secolo scorso e quello iniziato hanno perso la vita per l’odio fratricida che ancora accompagna, fastidioso compagno di banco, la quotidiana lezione per apprendere ciò che è bene e ciò che è male. I corsi e ricorsi storici altro non sono che il cammino dell’umanità che – come sosteneva G.B. Vico – incede tra fantasia, ragione, perdita di senno in una spirale che ci porta a ripetere gli errori del passato e a riviverli partendo dagli abissi della miserevole condizione distruttiva per poi intraprendere con fatica la risalita verso quell’approdo stabile a cui diamo il nome di civiltà.
Per questo gli Stati e le Nazioni (intesi qui in modo riassuntivo come Governi e istituzioni da un lato e popoli e comunità dall’altro) dovrebbero fare in modo che la Storia fosse un valore in sé, da tramandare, leggendo nelle radici e nelle tradizioni ma anche nelle fratture e nelle lacerazioni il segno dei tempi che ci tocca rivivere. Abbiamo sentito raccontare dai nostri padri e dai nostri nonni quanto la loro vita fosse legata a doppio filo alla minaccia o alla presenza devastante delle guerra, delle discriminazioni, degli equilibri territoriali e delle consuetudini esistenziali assoggettate alle lotte di conquista o a quelle di liberazione: di territori, di popoli, di culture tramandate. L’umanità è sempre stata inquieta e turbolenta, i potenti della terra hanno sovente anteposto al bene del loro popolo la bramosia dell’espansione, del colonialismo, della sudditanza, troppe volte ciò che era stato costruito a fatica è andato via via a distruggersi sotto il peso di armi sempre più sofisticate e devastanti. Viviamo anche oggi un periodo di grandi pericoli incombenti, di violenze efferate, di sacrifici umani inaccettabili, la guerra in Ucraina ci ha riportato ad una realtà che avremmo dovuto imparare dai libri di storia se li avessimo letti con più attenzione, se avessimo ascoltato con rispetto i racconti di chi ci ha preceduto vivendo gli orrori che adesso si ripetono.
Tocca alla scuola riprendere le redini della pedagogia sociale, tocca agli insegnanti farsi latori di un messaggio di pace: verrà mai il tempo in cui saremo liberi di sottrarci al giogo della distruzione di tutto ciò che è vita? L’epoca in cui la pacificazione tra le genti della Terra sarà il primo vero obiettivo da perseguire?
Non esiste una ideologia che spieghi compiutamente la verità: ciascuna di quelle che conosciamo finisce – estremizzandosi – per generare ingiustizie e atrocità. Accade che le stesse religioni tradiscano la propria vocazione metafisica e metastorica per farsi intrappolare dagli eventi o diventando artefici di odio e rivalità inconciliabili.
L’educazione civica altro non è che la “morale della favola” della storia, il sunto finale, l’abbecedario etico, sociale, normativo a cui tutti dovremmo attingere. Se restiamo schiavi di interpretazioni soggettive e transeunti o ripetute finiamo per rinfocolare la miccia sempre accesa dell’odio e del rancore.
Qualcuno deve dire: fermatevi, fermiamoci.
Quel qualcuno è ciascuno di noi, riprendiamoci l’uso del pensiero critico e l’etica universale che insegna la vita come valore assoluto da proteggere, facciamoci rappresentare da persone oneste, rette e pacifiche. I totalitarismi di ogni genere non devono far crescere la malapianta dell’odio e della morte provocata in danno di un altro uomo. Bisogna insegnare che le guerre covano sotto le ceneri della violenza e del delirio di onnipotenza e che prima o poi tutto sfugge di mano e si ripresenta alla storia sotto mentite spoglie.