Poiché una politica senza speranze né argomenti – specie a sinistra – pullula di tanti ghostbuster sul fascismo, sarebbe un incidente serio dimenticare che oggi – 25 luglio – è l’anniversario di evento determinante nella storia del Paese, avvenuto nello stesso giorno del 1943 , quando il regime fascista implose.
Nella notte si era svolta la riunione del Gran Consiglio del Fascismo, che era, in pratica, il solo organo introiettato nello Statuto Albertino in grado di sfiduciare Mussolini. La lettura dei verbali di quel dibattito notturno è molto interessante, non solo per la durezza delle requisitorie, ma per lo stato di prostrazione con cui viene descritto il Duce, che sembra neppure reagire alle accuse dei suoi boiardi.
La discussione si concluse con la votazione dell’odg presentato da Dino Grandi, che venne approvato a maggioranza. La mattina stessa Mussolini si recò dal re, che non era estraneo alla congiura (come non lo era stato il 28 ottobre 1922 dopo la Marcia su Roma e… dintorni), il quale in pratica lo fece arrestare dai carabinieri che, caricatolo su di un’ambulanza, lo ricoverarono in una clinica romana.
Alcuni giorni dopo il Duce – beffa del destino – venne trasferito nell’isola di Ventotene, dove erano in “villeggiatura forzata” tanti oppositori del regime, che in quei giorni erano stati liberati dal governo Badoglio e si apprestavano a lasciare l’isola. Tra questi, il leader socialista Pietro Nenni che, nelle sue memorie, racconta di aver osservato da lontano, col cannocchiale, Mussolini alla finestra. E ricorda che tanti anni prima erano stati incarcerati insieme nella loro Romagna solatia.
Il fascismo si sfasciò in una notte. Il PNF non aveva mai avuto tanti iscritti anche perché l’iscrizione era divenuta obbligatoria; aveva sedi, gerarchi, funzionari, militanti; ma nessuno tentò la minima reazione. Mentre il popolo manifestava nelle piazze, fu tutto un fuggi-fuggi o un rinchiudersi nelle case, mentre in pochi giorni il governo Badoglio smantellava le istituzioni del regime, a partire dalle Corporazioni che vennero commissariate, con la nomina di personalità antifasciste, spesso provenienti dal sindacalismo dell’Italia liberale.
A pensarsi bene è impressionante la rapidità con cui si mossero i medesimi gruppi di potere che avevano favorito l’ascesa del regime e prosperato al suo interno, a partire dal Sovrano e dallo stesso Badoglio. Lo sbarco degli alleati in Sicilia avvenne nei primi giorni di luglio; poche settimane dopo il Gran Consiglio sfiducia Mussolini e il re lo fece arrestare e mettere sotto custodia. Il nuovo governo si mise in contatto con i Comandi Alleati per stipulare un armistizio. La stipula ebbe luogo in Sicilia nella frazione siracusana di Cassibile, in contrada Santa Teresa Longarini e rimase segreta per cinque giorni, nel rispetto di una clausola del patto che prevedeva che esso entrasse in vigore dal momento del suo annuncio pubblico. Il pomeriggio dell’8 settembre 1943 alle ore 17:30 (18:30 per l’Italia), Radio Algeri trasmise il proclama in lingua inglese per bocca del generale statunitense Dwight Eisenhower.
Alle 19:42 italiane il primo ministro Badoglio diffuse la notizia con un proclama trasmesso dai microfoni dell’EIAR.
Il proclama letto alla radio
Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al Generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.
Badoglio fece trasferire Mussolini sul Gran Sasso, da dove il 12 settembre fu liberato da un commando tedesco. La reazione dell’esercito italiano, impegnato sui diversi fronti, fu quella della sorpresa e dello smarrimento, in mancanza di ordini precisi e di fronte ad un’azione tedesca che non perse tempo ad invadere tutta la Penisola. Il fascismo risorse “repubblicano”, sotto la guida di Mussolini, nello stato fantoccio della RSI, mentre il re e la corte fuggirono da Roma per raggiungere prima Pescara, poi Brindisi e Bari allo scopo di salvaguardare la continuità dello Stato e di combattere insieme ai nuovi alleati. Al nord iniziò una guerra civile che si concluse il 25 aprile del 1945. Ma l’inizio della fine era iniziata il 25 luglio di due anni prima, grazie ad un golpe dall’interno del regime.
Il crollo del regime come se fosse un castello di carte è, secondo gli storici più avveduti, la prova che in realtà il fascismo era certamente una dittatura, ma non un regime totalitario come il nazismo e lo stalinismo. Infatti, durante i vent’anni in cui rimase al potere, dovette fare i conti con altre istituzioni quali la monarchia e il Vaticano, che alla fine sfilarono la sedia sotto i magnani lombi del Duce, riciclando personalità (si pensi a Pietro Badoglio, il vincitore della guerra all’Etiopia, nominato Duca di Addis Abbeba) che erano influenti durante il regime e responsabili dei suoi misfatti.
A pensarci bene, anche il comunismo in Italia è scomparso di scena nell’arco di un biennio dopo la caduta del muro di Berlino. Chi ha conosciuto il Pci ha avuto la sensazione che la sua scomparsa dalla scena politica costituisse una sorta dell’abisso di Atlantide. Il Pci era una forza politica strutturata e coesa da una ideologia solida corredata da studi di un pensiero – il marxismo – che non era un mix di analisi banali, e che ha avuto un posto di rilievo nel campo delle teorie economiche. Tutta quella impalcatura dottrinaria si è dileguata, per lasciare il posto al “pensiero debole” del Pd. Come se si fosse passati dal Capitale alla lettura del libro Cuore.