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Sottoprodotti: la regola del sospetto

L'Ufficio delle Dogane di Genova riclassifica d'imperio una partita di sfridi di produzione pronti per l'esportazione da sottoprodotti a rifiuti: sulla base di un mero sospetto. Il Tar annulla il provvedimento. L'ente pubblico fa appello al Consiglio di Stato: che lo rigetta e condanna le Dogane a pagare le spese di giudizio. L'articolo di Stefano Palmisano 

 

Sospetto e indizio: così vicini, così lontani. In uno Stato costituzionale.

Secondo la Corte di Cassazione penale, “il ‘sospetto’ è una nozione che oscilla tra due estremi semantici, ovvero tra il significato di fenomeno soggettivo, congettura, quindi di ipotesi senza prove, o meglio, alla ricerca di prove, ed il significato di indizio equivoco, e quindi debole […] Al contrario, gli ‘indizi’ sono gli elementi probatori raggiunti attraverso un ragionamento inferenziale, che partendo da un fatto noto (indizio) conduce ad un fatto ignoto (il fatto da provare).”[1]

Il che vuol dire, detta in maniera semplice, che sulla base di un mero “sospetto” in uno Stato di diritto non si potrà e non si dovrà mai condannare nessuno, per nessun tipo di reato.

In uno Stato di diritto, però, non dovrebbe essere proprio normale neanche che, in forza essenzialmente di un sospetto – ossia di una congettura, per dirla con le parole della Suprema Corte – un ente pubblico adotti un provvedimento autoritativo; almeno in uno Stato la cui Carta Costituzionale sancisce l’obbligo di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione[2].

La storia: gli sfridi di calzature che destano sospetto

Evidentemente, alla Sezione Antifrode e Controlli dell’Ufficio delle Dogane di Genova 2 non la pensano così.

La vicenda accade in ambito di sottoprodotti, che a quanto pare si conferma territorio d’elezione, suo malgrado, della cultura del sospetto, nel più vasto panorama della normativa ambientale italiana.

Fenomeno che risulta difficilmente spiegabile, tenendo conto che i sottoprodotti sono uno strumento fondamentale – forse, il più significativo – di quella nuova e virtuosa forma di economia che va sotto il nome di economia circolare: quella che dovrebbe diventare il modello di riferimento del futuro prossimo per tentare l’impresa ardua, ma mai come oggi imprescindibile, di coniugare le istanze della crescita economica orientata e della tutela ambientale e della salute umana.

Per tornare al caso concreto, l’ente pubblico in questione con un proprio provvedimento dello scorso anno riclassificava una certa quantità di sfridi di produzione di un’azienda lombarda dalla categoria di sottoprodotto a quella di rifiuto, invitando la stessa impresa che ne aveva organizzato la spedizione all’estero, al soggetto acquirente, a riprendersi i presunti rifiuti e a conferirli in un idoneo impianto di smaltimento.

La peculiarità della storia, però, sta nella motivazione del provvedimento in esame: il “sospetto che i residui presentati in dogana per l’esportazione, pure essendo sottoprodotti derivanti da processi produttivi, non continuino ad essere impiegati in un processo produttivo…”.

Sospetto nutrito nonostante l’esito della verifica fisico-chimica della merce, disposta al fine di appurare se gli sfridi fossero da considerarsi “rifiuti” ai sensi della normativa eurounitaria[3] – e quindi riconducibili alla relativa voce doganale – piuttosto che un sottoprodotto/materia prima secondaria, come invece dichiarato dal privato. Verifica che aveva confermato la versione dell’azienda, giacché aveva “chiarito che il prodotto è un materiale di recupero/sfrido di lavorazione di una sola materia termoplastica, che può essere considerata materia prima secondaria”

La sentenza del Tar: un provvedimento illegittimo…

Il provvedimento delle Dogane, di conseguenza, era stato annullato dal Tar competente adito dall’azienda produttrice.[4]

Scrive il Consiglio di Stato – nella pronuncia che si esaminerà meglio a breve – che nella sentenza di primo grado era stata “valutata la correttezza ed esaustività delle informazioni contenute nella scheda tecnica, la circostanza che l’acquirente del materiale abbia pagato un prezzo costituisce un ulteriore indizio dell’utilizzo del materiale come materia prima secondaria (cfr. l’art. 5 commi 3 e 4 del D.M. Ambiente 13.10.2016, n. 264), posto che, diversamente, il corrispettivo per il suo (illecito) smaltimento sarebbe stato verosimilmente pagato dal produttore del rifiuto.”

… e “inutilmente gravatorio”

Infine, dal Tribunale amministrativo era stato “osservato che le informazioni contenute nella scheda tecnica del prodotto circa le sue caratteristiche ed il relativo ciclo di produzione – la cui correttezza è stata convalidata all’esito della specifica istruttoria svolta dal laboratorio di analisi dell’ufficio Antifrode e Controlli dell’Agenzia – unitamente a tutta la documentazione contrattuale (contratto di acquisto, bonifico e fattura) appaiono univoci e adeguati nel supportare una valutazione prognostica circa il successivo utilizzo del prodotto come materia prima secondaria, sicché il provvedimento impugnato appare inutilmente gravatorio.”

Nonostante il singolare riferimento alla specie di materia prima secondaria – ormai sostituita nella nostra legislazione dalle più penetranti categorie di sottoprodotto e di cessazione di fine rifiuto – la sentenza del Tar ligure risultava evidentemente solida.

L’appello dell’ente pubblico: errare humanum est, perseverare autem …

Ciononostante, alle Dogane di Genova non sono riusciti a farsi una ragione dell’annullamento del loro provvedimento “inutilmente gravatorio” e hanno interposto contro la pronuncia del Tribunale un appello al Consiglio di Stato che quindi vantava, a priori, ottime probabilità di risultare ancor più inutilmente gravatorio.

E così è stato.

Il gravame era fondato sostanzialmente su alcuni documenti prodotti dall’azienda in sede di procedimento amministrativo che, secondo la P.A., avrebbero attestato la correttezza dell’operato dello stesso ente pubblico e sarebbero stati invece ignorati dal Tar.

La sentenza del Consiglio di Stato: un sospetto che viene dissolto; un provvedimento che viene annullato; una P.A. che viene condannata a pagare le spese.

Come già anticipato, l’appello viene totalmente rigettato dal Consiglio di Stato[5] sulla base di una lunga e articolata serie di motivazioni.

Anzitutto, il collegio di Palazzo Spada avalla l’impostazione del Tar per cui si trattava di sottoprodotto, “valutando le specifiche circostanze del caso concreto a partire dal certificato di analisi 17.12.2020 del laboratorio dell’Ufficio Antifrode e Controlli dell’Agenzia.”

A fronte di questo, l’atto d’appello delle Dogane “non ha smentito le precise argomentazioni e circostanze fattuali contenute nella sentenza appellata”.

E qui il Consiglio non risparmia una notazione fondamentale ai fini della comprensione e della valutazione del complessivo operato dell’Ufficio delle Dogane in questa vicenda: “anche considerando che lo stesso provvedimento amministrativo impugnato in primo grado ha espressamente stabilito che trattasi di materiale che ha in sé le caratteristiche di sottoprodotto e che pertanto tale punto non è oggetto di controversia.”

La conclusione di questa singolare vicenda processuale non poteva essere che una: “Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello, come in

epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l’amministrazione alle spese del grado d’appello nella misura di euro 4.000/00 (Quattromila/00) oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

La Corte di Cassazione statuisce la normale pratica industriale

La cattiva fama della quale, in modo assai difficilmente spiegabile, godono i sottoprodotti in ambito di pubblica amministrazione ma anche di autorità giudiziarie non nasce certo con la vicenda raccontata sopra.

Vi sono anche alcuni arresti giurisprudenziali che si inseriscono perfettamente in questo filone “scettico” nei confronti dell’istituto giuridico in questione.

In particolare, se ne segnala una della Corte di Cassazione penale.

In quell’occasione, la Suprema Corte giunse ad elencare una serie di attività di lavorazione effettuate su un residuo di produzione che, a parere dei Giudici del Palazzaccio, non potrebbero rientrare nel concetto di “normale pratica industriale”, previsto dalla normativa in materia di sottoprodotti[6] e, quindi, impedirebbero che il residuo in esame possa esser qualificato come sottoprodotto.

La Cassazione affermò che “in tema di sottoprodotto, vanno esclusi dal concetto di ‘normale pratica industriale’ tutti gli interventi manipolativi del residuo, anche ‘minimali’, diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato.” Tra questi interventi minimali rientrerebbero “la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione, in quanto idonee a determinare una modificazione della originaria consistenza della sostanza;”[7] i quali costituirebbero a giudizio del Supremo Collegio vero e proprio “trattamento”, con la fatale conseguenza di far sprofondare gli scarti in questione nell’Ade dei rifiuti.

Non risulta chiarissimo il fondamento di questa valutazione dei Giudici di legittimità sotto il profilo scientifico e industriale. Ma, a ben vedere, essa desta perplessità anche sotto quello giuridico, almeno in relazione al livello normativo unionale (che, peraltro, in ambito di rifiuti e sottoprodotti è quello di riferimento, com’è noto, essendo il testo fondamentale in tale ambito proprio una direttiva europea[8]).

La Commissione Europea, infatti, ha avuto modo più volte di occuparsi di sottoprodotti in chiave interpretativa.

Nella prima occasione, ha affermato che “la catena del valore di un sottoprodotto prevede spesso una serie di operazioni necessarie per poter rendere il materiale riutilizzabile: dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità ecc.”[9]

Su questa stessa falsariga argomentativa la Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98 ha chiarito che sono consentiti tutti quegli interventi che “nella catena del valore del sottoprodotto” risultano “necessari per poter rendere il materiale riutilizzabile”. La Commissione specifica in tal modo il concetto: il sottoprodotto “[…] può essere lavato, seccato, raffinato od omogeneizzato”, nonché “[…] dotato di caratteristiche particolari” con l’aggiunta di “[…] altre sostanze necessarie al riutilizzo […]”.

Il senso del discorso è chiaro: bisogna fare il possibile per evitare di sprecare materia e produrre rifiuti; anche in ossequio al principio fondamentale dell’ordinamento comunitario in questa materia: la riduzione, a mezzo di prevenzione, dei rifiuti stessi.[10] Sempre garantendo un elevato livello di tutela dell’ambiente e della salute, naturalmente.

Su queste solide basi enucleate in ambito comunitario (lo si ripete, quello di riferimento in questa materia), la posizione della Corte di Cassazione sopra riportata risulta di difficile comprensione.

Conclusioni

La giurisprudenza – in particolare, quella della stessa Cassazione penale – ha messo più volte in evidenza in evidenza la natura di deroga e di favore della regolamentazione dei sottoprodotti rispetto a quella generale dei rifiuti, e di conseguenza la necessità di una gestione pulita e rigorosa di questi strumenti da parte degli operatori economici.

Quelle stesse pronunce giurisrudenziali dimostrano che in questo paese, troppo spesso, anche una normativa come quella in materia di sottoprodotti ispirata a principi alti, nobili e vitali di natura economica ed ecologica è terreno di scorribande da parte degli immancabili “ecofurbi”; o, per meglio dire, degli ecocriminali seriali.

Premesso tutto questo, il metodo più serio e conforme a uno Stato di diritto per contrastare quelle scorribande non può essere la cultura del sospetto assurta a principio ispiratore – quando non proprio a espressa base motivazionale, come nel primo caso esaminato in questo articolo – dell’agire dei poteri pubblici e del conseguente, discutibilissimo, impiego di risorse pubbliche.

Non lo consentono i principi costituzionali cui facevo riferimento sopra.

Ma, prim’ancora, non lo permettono il concetto di Stato di diritto e lo stesso buon senso.

E non lo ammette la necessità – codificata dall’Unione Europea, quindi cogente anche per questo Stato, in tutte le sue articolazioni – di sviluppare l’economia circolare in ogni sede e in ogni modo: a partire dal suo contesto d’elezione, ossia la simbiosi industriale.

Il che vuol dire, anzitutto, evitare di uccidere nella culla i suoi strumenti fondamentali: come i sottoprodotti, per l’appunto.

 

[1] Corte di Cassazione, sentenza 14 ottobre 2020, n. 28559
[2] Art. 97, Cost.
[3] Di cui al Reg. CE n. 1031/2006
[4] Tar Liguria n. 253 del 23 marzo 2021
[5] Cons. Stato, Sez. VII, Sent., (data ud. 08/02/2022) 24/02/2022, n. 1336
[6] Art. 184 bis, D. Lvo 152\2006
[7] Cass. pen., Sez. III, 17/04/2012, n. 17453
[8] Direttiva 2008/98
[9] Comunicazione interpretativa della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo sui rifiuti e sui sottoprodotti datata 21 febbraio 2007
[10] Direttiva 2008/98, Articolo 4, Gerarchia dei rifiuti

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