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Chi sono i Drusi, perché Israele li difende e cosa sta succedendo in Siria

Che cosa sta succedendo tra Israele e Siria? E perché Tel Aviv difende i Drusi. Conversazione con Andrea Molle, professore associato di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California

Che cosa sta succedendo tra Israele e Siria? Dopo i bombardamenti di Tel Aviv a Damasco e non solo è uscito allo scoperto il nodo dei Drusi, minoranza tra le tante che vive nell’ex regno di Bashar al-Assad ma anche in Israele e nel resto della regione e che ora lo Stato ebraico si prefigge di difendere dagli assalti islamisti subiti nel loro stesso Paese. Ma c’è di più, perché, come ci spiega Andrea Molle, professore associato di Scienze politiche e Relazioni internazionali presso la Chapman University di Orange, California, i Drusi stanno anche collaborando attivamente con Israele per impedire che il mostro jihadista alzi la testa.

Prof. Molle, chi sono i Drusi?

I Drusi sono una comunità religiosa monoteista emersa nell’XI secolo come diramazione dell’Ismailismo, una corrente dell’Islam sciita, ma con dottrine esoteriche uniche che li rendono distinti sia dall’Islam che dalle altre religioni abramitiche. Fortemente chiusi al proselitismo, i Drusi praticano una fede riservata e identitaria che combina elementi religiosi, filosofici e gnostici. La comunità è etnicamente araba, ma culturalmente molto coesa, con una forte enfasi sulla lealtà interna e sull’autonomia.

Dove vivono?

I Drusi sono presenti principalmente in Libano, Siria e Israele, con piccole comunità in Giordania e nella diaspora. In Israele i Drusi sono circa 150.000 (quasi il 2% della popolazione), distribuiti soprattutto nel nord del paese, in Galilea e sul Golan. Diversamente da altri gruppi arabi in Israele, molti Drusi servono volontariamente nell’esercito israeliano e sono parte integrante delle istituzioni statali, pur mantenendo una forte identità comunitaria. In Siria la comunità drusa conta tra i 600.000 e gli 800.000 membri, concentrati nella regione di Jabal al-Druze (oggi As-Suwayda), nel sud del paese. Qui i Drusi hanno mantenuto una certa autonomia storica e un ruolo importante nella società siriana, pur vivendo da tempo in una situazione delicata, soprattutto a partire dalla guerra civile.

Quello di mercoledì non è stato il primo episodio in cui Gerusalemme ha attaccato la Siria per proteggere i Drusi.

Certamente, non è stato il primo episodio in cui Israele ha bombardato obiettivi in Siria allo scopo dichiarato di proteggere i Drusi. Infatti, già a fine aprile–maggio vi furono attacchi mirati dall’aviazione israeliana contro forze siriane coinvolte in violenze settarie contro i Drusi nella provincia di As‑Suwayda. Poi, tra il 28 febbraio e il 2 marzo, durante gli scontri a Jaramana – sobborgo di Damasco dove vive una comunità drusa – l’IDF minacciò di intervenire se la nuova autorità siriana avesse attaccato i Drusi, rafforzando le posizioni nella zona e intimidendo Damasco. Quindi l’azione di ieri si inserisce in una sequenza di episodi simili: un intervento preventivo o reattivo da parte israeliana legato al timore che il nuovo governo siriano guidato da Ahmed al‑Sharaa (ex esponente di HTS) potesse prendere di mira questa minoranza.

I Drusi sono in pericolo in Siria? Chi li prende di mira?

Sì: i Drusi in Siria sono attualmente in pericolo. A sud, in particolare nella regione di As‑Suwayda, sono scoppiate violenze settarie tra milizie druse, tribù beduine e forze governative. Negli ultimi mesi si sono verificate uccisioni extragiudiziali e violenze comunitarie attribuite a forze governative e tribù sunnite beduine; vi furono almeno 10 Drusi uccisi in un solo episodio e circa 250–350 vittime totali tra civili e combattenti durante le ultime escalation. Il bersaglio principale delle ostilità sono i Drusi perché rappresentano una minoranza religiosa e culturale ritenuta “eterodossa” e sospetta dalle nuove autorità sunnite post‑Assad, nonché coinvolta in scontri locali con gruppi tribali. Israele giustifica i suoi attacchi proprio con la necessità di impedire che questa comunità venga sottoposta a pulizia settaria o repressione armata.

Netanyahu ha dichiarato però anche che non tollererà bande islamiste al confine. I Drusi stanno collaborando con Israele in questo?

Sì, esistono segnali chiari che alcuni settori della comunità drusa siriana stiano collaborando, in modo discreto ma significativo, con Israele. In particolare nelle zone di confine come il Golan e la regione di As-Suwayda, Drusi locali hanno facilitato operazioni d’intelligence israeliane e, secondo diverse fonti, fornito informazioni su movimenti di milizie islamiste vicine ad Hayat Tahrir al-Sham (HTS) o ad altri gruppi sunniti radicali che hanno guadagnato influenza nel vuoto di potere lasciato dalla caduta di Assad. Israele, da parte sua, ha rafforzato i contatti con capi tribali e autorità comunitarie druse, soprattutto per garantire che queste aree non vengano infiltrate da gruppi jihadisti. La recente dichiarazione di Netanyahu sul fatto che “non tollererà bande islamiste al confine” va letta non solo come minaccia al nuovo governo siriano, ma anche come messaggio a tutela implicita dei Drusi: un modo per dissuadere attacchi settari e, al tempo stesso, per consolidare un’alleanza tattica con una minoranza che si è sempre mostrata pragmatica, pur restando ufficialmente distante dal sionismo. Questa collaborazione ricalca modelli già visti nel passato: autodifesa locale, scambio di intelligence, ma senza un’adesione formale o ideologica.

Gli USA hanno fatto male a togliere le sanzioni alla Siria? Troppo presto? Il nuovo governo di Damasco non fornisce ancora sufficienti garanzie?

Non direi troppo presto. Togliere le sanzioni favorisce la ricostruzione e un allineamento strategico favorevole agli USA. Ma, senza monitoraggio rigoroso e verifiche concrete sull’impegno del governo Jolani verso democrazia, diritti e sicurezza, il rischio è di aprire troppo presto una porta senza solidi controlli. Un approccio prudente suggerirebbe l’istituzione di meccanismi di verifica chiari: verifiche indipendenti, report pubblici, impegni espliciti sul rispetto dei diritti umani e condivisione di responsabilità con la comunità internazionale.

Ci parli del nuovo assetto della Siria, tra Stato multiconfessionale e tendenze all’islamismo.

Il nuovo assetto della Siria post-Assad si sta configurando come un mosaico fragile e complesso, nel quale convive una pluralità di identità religiose ed etniche sotto una parvenza di Stato unitario. Dopo anni di guerra civile e con la fine del dominio alawita di Bashar al-Assad, il Paese si trova ora conteso tra diverse autorità locali, milizie e attori internazionali. Al centro di questo scenario si colloca Abu Mohammad al-Jolani, ex leader di Jabhat al-Nusra e oggi figura chiave nel governo di transizione nell’area di Idlib, progressivamente legittimato da attori regionali e internazionali come interlocutore credibile. La sua trasformazione da jihadista a governatore pragmatico è stata accolta con scetticismo da molti, ma ha aperto un canale diplomatico che sembrava impensabile fino a pochi anni fa.

Jolani è stato sdoganato da tutti, inclusi noi europei, che però abbiamo chiesto in cambio la protezione delle minoranze.

Jolani oggi si presenta come garante della sicurezza e della convivenza, promettendo protezione anche alle minoranze religiose, in particolare cristiani e Drusi, storicamente minacciati nei contesti dominati da movimenti islamisti. Tuttavia, nonostante le dichiarazioni di moderazione e l’apparente adozione di un linguaggio statalista, rimangono forti dubbi sulla sincerità di questa metamorfosi. Il suo passato e la struttura ancora islamista dell’HTS (Hay’at Tahrir al-Sham) suggeriscono la possibilità di un doppio gioco: da un lato, consolidare il potere attraverso una narrazione inclusiva; dall’altro, mantenere saldi i legami ideologici con l’islamismo radicale, in attesa di condizioni più favorevoli. Il rischio, dunque, è che l’apparente apertura verso un assetto multiconfessionale sia più una strategia tattica che un reale cambiamento di paradigma. Se Jolani non sarà in grado – o non avrà l’intenzione – di garantire piena cittadinanza e diritti reali alle minoranze, la Siria potrebbe trovarsi prigioniera di un nuovo autoritarismo travestito da stabilità. In questo senso, l’atteggiamento della comunità internazionale, inclusa la revoca prematura di alcune sanzioni, andrà monitorato attentamente. Sdoganare troppo in fretta un attore ancora ambiguo rischia di compromettere ogni possibilità di una pace autenticamente pluralista.

Chi protegge chi in Siria? Quali sono le potenze che si ingeriscono negli equilibri post-Assad?

In Siria oggi la domanda “chi protegge chi?” è fondamentale per comprendere gli equilibri instabili del Paese. La Russia resta il principale garante delle aree ancora sotto controllo del vecchio apparato statale, soprattutto nella Siria costiera alawita e attorno a Damasco. L’Iran, invece, protegge e arma le milizie sciite e sostiene gli interessi dell’asse sciita, garantendo la sopravvivenza di Hezbollah in Libano attraverso il corridoio siriano. La Turchia mantiene sotto tutela le zone settentrionali, in funzione anti-curda, proteggendo le enclavi sunnite e i gruppi a lei affiliati. Gli Stati Uniti, con una presenza ridotta ma strategica nel nord-est, si concentrano soprattutto nel supporto ai curdi delle Syrian Democratic Forces, in chiave anti-ISIS e di contenimento iraniano. Israele, pur inizialmente senza un ruolo diretto, ha agito come “protettore a distanza” della comunità drusa e ha ripetutamente colpito obiettivi iraniani e sciiti per prevenire un radicamento permanente al confine.

Come è evoluta la situazione in questi ultimi mesi?

Come vediamo, questa situazione sta cambiando. A questa mappa di protezioni “per procura” si aggiunge la partita interna, dove attori come Jolani cercano ora di proporsi come garanti delle minoranze contro derive jihadiste, ma anche come interlocutori utili per le potenze straniere. La Siria è dunque attraversata da una rete di protettorati de facto, in cui ogni gruppo minoritario o fazione armata si affida a un patrono esterno per garantirsi sopravvivenza e margini di potere. La vera sovranità resta in larga parte sospesa.

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