Indipendentemente dal giudizio che ognuno ovviamente ha sul premier (lo scriviamo al maschile per rispetto di come lei vuole essere chiamata, così come usiamo, per altrettanto rispetto, il femminile per la segretaria Pd Elly Schlein) Giorgia Meloni, colpisce in certi giudizi tranchant di esponenti delle opposizioni, per non dire di certe frasi sui social di fan di sinistra, lo sprezzo totale fino a rasentare la misoginia per il primo premier donna in Italia.
Senza voler fare del femminismo a tutti i costi, non risulta che con tutti gli altri premier uomini siano stati usati toni così liquidatori, come a prescindere dalle argomentazioni politiche. Eppure, di argomenti nella conferenza stampa il premier rispondendo alle domande a tutto campo, senza escludere nulla, dei giornalisti, a differenza di come viene loro rimproverato da destra a manca, ne ha offerti molti. A cominciare dal grave caso del magistrato della Corte dei Conti, Marcello Degni, che ha invocato via social l’esercizio provvisorio per l’Italia.
La sua “sfrontatezza” è stata stigmatizzata, rispondendo alla domanda del giornalista politico-parlamentare di Rtl, Alberto Ciapparoni, dal premier. Ma Meloni, che ha chiesto a Schlein e Paolo Gentiloni, che “lo ha nominato”, se “ritengano normale che una figura superpartes si comporti da militante politico”, almeno fino a ieri sera non ha ottenuto ancora risposta o ufficiale risposta.
Ma con Meloni (che, se vogliamo restare alla correttezza linguistica andrebbe chiamata senza “la”) si va come per preconcetto. In questo, compreso certo irridente atteggiamento da parte dello stesso Matteo Renzi che già prima della conferenza stampa aveva detto che il premier sarebbe incapace di avere una visione sul futuro, insistendo sull’accostamento tra il premier e una celebre influencer. E questo solo perché Meloni a Atreju disse una frase di buon senso: meglio chi produce concretamente il made in Italy che chi lo griffa. E, invece, per giorni il terzismo renziano, quello che si propone come la vera anima riformista e garantista delle opposizioni, è andato avanti con un paragone dai toni non solo inadeguati per un’istituzione ma sgradevoli anche per Chiara Ferragni che non è né premier né politica.
Ieri invece il leader di Iv, che alcuni osservatori ritenuti autorevoli giudicano come unico vero oppositore (i numeri elettorali che ha sembrerebbero solo un dettaglio), ha paragonato invece Meloni a “attrici” che parlano anche in “romanesco”. Viene da spezzare una lancia anche per tutte le attrici e le influencer, cosi mazzolate, oltre che per lo slang romanesco esibito dopo ore di maratona dal premier per sdrammatizzare con ironia.
Ma andiamo, appunto, alla politica. Quello che colpisce, come si è detto, dei toni mai o quasi visti usare in modo così sprezzante e tranchant per tutti gli altri premier uomini, è soprattutto l’allergia, il rifiuto dell’alternanza in quanto tale da parte di tutte le opposizioni, il non aver mai elaborato il lutto della secca sconfitta alle Politiche, alle successive Regionali di Lombardia, Lazio, Trentino e ad altre importanti Comunali che hanno sempre visto vincere il centrodestra o destra-centro.
Quello che colpisce di tutte le opposizioni è il non aver mai, come sembra, fatto i conti con i numeri così secchi, evidenti, rifugiandosi invece nella storia che sarebbero tutto frutto dell’astensionismo, che è certamente un problema per tutti, ma che non è stato così tanto clamoroso rispetto ad altre precedenti elezioni. Non convincono neppure certe analisi un po’ teoriche di osservatori sulle classi dirigenti ideali, che prescindono dal merito di cosa fu “mani pulite”, ovvero un’intera classe dirigente, il tanto deprecato pentapartito, che ricostruì l’Italia, spazzato via per via giudiziaria. Uno snodo shock della storia italiana che ridisegnò il volto della politica lasciando in piedi solo post-Pci e post-Dc di sinistra, snodo che se la sinistra anche quella codiddetta riformista continua a saltare a pie’ pari, dovrebbe essere affrontato prima o poi dal centrodestra. Che con Guido Crosetto giustamente parla di uso politico della giustizia e dei pericoli che per il governo Meloni potrebbero venire solo dall’ “opposizione giudiziaria”, visto lo slabbramento delle opposizioni prive di un vero programma alternativo, salvo rincorrere “pistoleri” o le fermate dei treni.
Ma soprattutto a colpire è il fatto sostanziale che traspare anche dai commenti in apparenza migliori e cioè il recondito rifiuto dell’alternanza quando a vincere è il centrodestra e non una sinistra o centrosinistra ritenuti di fatto superiori, pur senza i numeri. Che considerazione si ha degli elettori in carne e ossa da parte di un centrosinistra che per un decennio ha vinto solo con governi tecnici e grandi coalizioni?
I governi di centrodestra o destracentro continuano ad essere considerati, da Silvio Berlusconi a Meloni, sciagurate anomalie e con la speranza che siano solo parentesi. Più che sul merito dei provvedimenti, l’opposizione sembra sempre pregiudiziale sul metodo, ovvero contro il principio stesso dell’alternanza. Si disegnano classi dirigenti ideali, si paventato “derive autoritarie” solo o soprattutto quando il centrodestra vince. Come se la politica fosse un mondo tutto perfettino, a seconda dei desideri, e non anche risultato pragmatico di azioni concrete in un’Italia e in un mondo cambiati, e i leader di oggi, con alle spalle partiti e storie di partiti, fossero nati sotto un cavolo. Salvo rimpiangerne alcuni, come Silvio Berlusconi, fondatore del centrodestra, ma solo da morti, dopo averli attaccati senza tregua in vita.
Giuliano Amato, dopo aver paventato una deriva che potrebbe addirittura portare alla fine della democrazia, si è dimesso dalla commissione algoritmo. Perché il premier ha richiamato al principio dell’alternanza quando ha detto che sinistra e destra devono avere “pari diritti”, altrimenti si stabilisce che “sia il Pd a fare le nomine dei giudici costituzionali”? Eppure, Amato, caso non molto stigmatizzato cosi come quello di Degni sui codiddetti giornaloni, come ha ricordato su questo giornale Francesco Damato, resta soprattutto un presidente emerito della Corte costituzionale.