Caro direttore,
Axios, un sito di inconcussa fede progressista, presentando una cartina degli States nella quale il rosso del Grand Old Party è il colore dominante (277 voti elettorali a Trump, 244 a Harris), ha commentato: “L’ex presidente Trump è riuscito ad architettare la rentrée più stupefacente della storia americana, un ritorno che sfida la legge di gravità”. A questo punto mi sembra che su almeno due cose non dovrebbero esserci dubbi. La prima è che il 47° presidente degli Stati Uniti d’America sarà Donald Trump, la seconda che questo esito ha stupefatto l’opinione pubblica internazionale (leggi: i media del mondo occidentale).
Non resisto alla tentazione di dirti la mia, benché sprovvisto di qualsivoglia titolo accademico e/o professionale per farlo; anzi proprio questa incompetenza mi dà la serenità di esprimere un’opinione che ha il pregio di non contare nulla. L’opinione, ovviamente, è sulla domanda che molti si faranno: che cosa è andato storto nell’imponente macchina da guerra della campagna democratica e di certi fiancheggiatori, come quella signora von der Leyen che solo pochi giorni fa aveva confermato lo scontato endorsement della Commissione di Bruxelles per Kamala Harris solo per correre stamattina a tributare il suo omaggio al nuovo boss?
Le mie sconsiderate risposte sono tre. La prima è che le elezioni da che mondo è mondo sono il festival delle bugie: in epoca non sospetta il principe von Bismarck avrebbe detto che “Non si dicono mai tante bugie come dopo la caccia e prima delle elezioni”. Ma un conto sono le bugie, un altro le maschere e i travestimenti. E mi sembra che i progressisti già da un certo tempo mostrino la tendenza a mascherarsi e a travestire il paese guida, gli Stati Uniti, da organizzazione no-profit che ha per scopo sociale la promozione della democrazia e dei valori liberal-democratici nel mondo. Penso per esempio a quella sorta di Jamboree dei “paesi democratici” indetta nel primo anno dell’amministrazione Biden, lo stesso in cui gli Stati Uniti hanno “restituito” l’Afghanistan ai Talebani nel modo che tutti ricordano. E qui mi viene da citare una pillola di saggezza di un vecchio amico, guru della grande distribuzione: “i clienti sono delle pecore ma hanno la memoria degli elefanti”.
La seconda sconsiderata risposta parte da una premessa altrettanto ovvia. Il mondo occidentale, probabilmente già dagli anni della Rivoluzione manageriale di James Burnham, è dominato da una bene individuabile classe sociale che però ha sempre avuto l’astuzia di non considerarsi tale e che quindi è tabù nel discorso pubblico, la classe sociale dei burocrati. Questa classe, oltre a essere organicamente connessa al mondo dell’informazione e della comunicazione (Paolo Murialdi vedeva negli araldi medievali i progenitori dei giornalisti) a partire dagli anni fra le due guerre si è gradatamente trasformata in una realtà transnazionale sempre meno vincolata a un territorio. Tutto bene e tutto bello, chi non vorrebbe la pace, kantianamente perpetua, tra le nazioni? Ma qui ritorna il solito problema: per perseguire l’obiettivo si fa finta che le nazioni siano ormai pittoresco folclore da consegnare agli etnografi. Purtroppo, però, la politica, che magari con le elezioni del capo del Paese più potente del mondo un po’ c’entra, ha ancora a che fare con il territorio; una realtà che non si concilia facilmente né con i metodi burocratici di esercizio del potere né con la “narrazione” progressista, tendenzialmente universalista. E qui si aprirebbe il capitolo delle mosche cocchiere di Bruxelles e dei media europei, ma di tutto questo è meglio tacere.
Terzo, è evidente a chiunque che il ruolo mondiale degli Stati Uniti mal si concilia con la narrazione che sostiene le ormai antiche istituzioni politiche democratiche americane, e soprattutto con la strenua difesa della narrazione democratica e federalista alla quale l’establishment degli States, che è e resta progressista, non vuole rinunciare. Non si può pretendere di conservare l’egemonia planetaria (e gli americani, del tutto correttamente dal loro punto di vista, sono determinati a conservarla), e rifiutarsi di riconoscerlo nel proprio assetto istituzionale formale, perché si finisce per perdere credibilità. Non dovrebbe sorprendere che proprio la “maleducazione”, la “prepotenza”, i metodi spicci di Trump, quanto di meno burocratico e di più vicino a uno stile plebeo e imperiale si possa immaginare, gli abbiano elettoralmente giovato: mai dimenticarsi che anche gli elettori sono clienti, pecore e elefanti al tempo stesso e, in ogni caso, animali che tollerano e addirittura amano le bugie ma non gradiscono i travestimenti.