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ZELENSKY

G7 e asset russi sequestrati: il piano (con incognite) approvato, il progetto Usa accantonato

Qual è stata la decisione del G7 sugli aiuti economici all'Ucraina finanziati con gli asset russi sequestrati. I numeri, l'accordo politico, le incognite tecniche e il progetto americano silurato dai Paesi europei. L'analisi di Liturri

Il G7 doveva portare ad un risultato, purchessia, sullo scottante tema degli aiuti all’Ucraina finanziati con gli asset russi sequestrati. E così è stato.

Già diverse ore prima della sessione di giovedì pomeriggio dedicata al capo del governo di Kiev Volodymyr Zelensky, circolava sui grandi media internazionali la notizia dell’accordo raggiunto a livello diplomatico. E non c’era motivo di dubitare che i leader avrebbero fornito il loro avallo nelle ore successive. Cosa puntualmente verificatasi e formalizzata nel comunicato conclusivo dei lavori.

Ma dietro le quinte della comprensibile soddisfazione di facciata per il risultato comunque conseguito restano pesanti macerie, perché si tratta di un compromesso al massimo ribasso, dopo il quale ci sarebbe stato solo il fallimento delle trattative. La soluzione è stata quella di procedere separatamente e proporzionalmente alle dimensioni delle rispettive economie, ognuno per sé, pur di arrivare alla somma complessiva di 50 miliardi di dollari da prestare all’Ucraina, sperabilmente entro fine anno. Ogni soggetto (Ue, Giappone, Canada, Usa, Regno Unito) emetterà separatamente debito sui mercati e erogherà prestiti a Kiev. I proventi dei fondi russi sequestrati (tra 3 e 5 miliardi all’anno) serviranno a rimborsare capitale e interessi agli investitori. Con la promessa degli Usa di colmare l’eventuale differenza fino a 50 miliardi.

Se questi fondi fossero insufficienti, saranno inevitabilmente i bilanci di ciascuno Stato a sopportare i relativi oneri. E per definire questi complessi passaggi legali ci vorranno almeno altri 4/5 mesi. Sperabilmente prima delle elezioni presidenziali Usa. Il G7 pugliese ha posto solo le basi di un intenso lavorio tecnico e diplomatico che è ancora tutto in fieri. A questo proposito, emblematiche le parole di Ursula von Der Leyen secondo cui “i ministri finanziari discuteranno dei dettagli per esempio sul ‘backstop’ del prestito”, cioè di chi sarà il garante di ultima istanza e di Giorgia Meloni che ha parlato di un “risultato non scontato che ora dovrà essere definito dal punto di vista tecnico”.

A questo proposito, poiché le parole sono pietre e le chiacchiere stanno sempre a zero, il comunicato finale costituisce solo la prima (malferma) pietra su un percorso che si presenta accidentato.

Quattro le parole chiave.

La prima è “extraordinary revenues”, cioè proventi straordinari. Allora ne deduciamo che non tutti i proventi finanziari saranno messi al servizio del prestito ERA (Extraordinary Revenue Acceleration), ma solo quelli “straordinari”, cioè eccedenti l’ordinarietà? Bella prospettiva per chi poi dovrà sottoscrivere quel prestito!

La seconda è “to obtain approval”. Per mettere i proventi finanziari al servizio del prestito non basta una bacchetta magica. Si tratta pur sempre di un esproprio, rispetto ai soggetti (depositari centrali come Euroclear) presso cui maturano quei proventi, che devono poi evitare di ritrovarsi con problemi legali con le autorità russe, avendo disposto di beni protetti dall’immunità tipica dei beni sovrani.

La terza è “consistent with all applicable laws…” ripetuta poi “”within the constraints of our respective legal systems” cioè “compatibilmente con”. Perché per tenere sequestrati i beni russi fino a quando non saranno ripagati tutti i danni della Russia all’Ucraina, bisogna fare i conti con i rispettivi sistemi legali dei Paesi in cui sono depositati quei fondi. Inoltre bisognerà fare gli opportuni passaggi parlamentari, ove previsti. Non si tratta certamente di limiti superabili con uno schiocco di dita.

La quarta è “incarichiamo i nostri ministri e funzionari competenti di rendere operativi questi impegni affinché si cominci ad erogare il prestito prima di fine anno”. Non c’è un modo più chiaro per dire che il cantiere dei lavori si è appena aperto. Cosa ben diversa da un accordo concluso. “Vaste programme” avrebbe detto Charles De Gaulle.

Ma chi si azzarderebbe a sottoscrivere un’obbligazione garantita su basi così fragili legalmente? È come se andaste in banca per chiedere un prestito per poter aiutare un amico in difficoltà a cui i ladri hanno svaligiato la casa. Alla domanda del direttore circa le garanzie da prestare per potervi dare il denaro, voi rispondereste che avete sequestrato la cassetta di sicurezza del ladro e che contate di ripagare la banca con i proventi di quella ricchezza. A quel punto il direttore solleverebbe obiezioni circa la stabilità e la certezza di quei proventi (per esempio cosa accadrebbe se quella cassetta fosse vuota o non fruttasse quanto sperato?) e voi sareste costretti a rilasciare una bella ipoteca sulla vostra casa. È chiaro come funziona? La garanzia dei fondi russi è scritta sul ghiaccio, per chi non l’avesse ancora capito. Il “backstop” (il paracadute, per usare le parole della von der Leyen) saranno i nostri soldi.

Eppure, ad aprile 2022, quando Mario Draghi sembrava aver tirato fuori il coniglio dal cilindro, convincendo il segretario al Tesoro Usa Yanet Yellen a convergere sulla sua proposta di sequestrare le attività finanziarie della banca centrale russa detenute all’estero (260 miliardi, di cui circa 200 nell’eurozona), sembrava tutto relativamente facile. Ma da allora, ogni incontro è sempre terminato con un arretramento rispetto all’obiettivo iniziale. Dopo pochi mesi il tema della confisca dell’intero capitale, cioè il definitivo esproprio a danno dei russi, è rapidamente sparito dai radar, per lasciare il passo alla discussione sui soli proventi derivanti da quelle attività. Nonostante ciò, ancora mercoledì una lettera firmata da una oltre una decina di parlamentari di vari Stati membri UE, continuava a chiedere al G7 di abbandonare le mezze misure e procedere comunque con la confisca.

Si è arrivati alla vigilia del summit pugliese, con autorevoli fonti diplomatiche Ue hanno liquidato l’ultima proposta americana con un eloquente “potremmo essere stupidi, ma non fino a questo punto”. Da Washington si intendeva emettere un prestito, farne pagare gli interessi dalla Ue (via proventi dei fondi russi sequestrati) che avrebbe anche assunto la garanzia verso gli investitori, veicolare quei fondi a Kiev attraverso un apposito fondo Usa-Ucraina e, infine, avere le imprese Usa come principali fornitrici degli aiuti. Nemmeno Totò con la fontana di Trevi era stato capace di arrivare a tanto. “Se avessimo proposto la stessa cosa a parti invertite, ci avrebbero preso per pazzi” è stato il commento di un diplomatico UE.

Se gli Usa avessero insistito su tale schema, la Ue avrebbe messo sul tavolo il piano di riserva. Cioè quello di agire separatamente, ciascuno con le proprie responsabilità legali, finanziarie e, soprattutto, politiche. Perché in alcuni casi ci sarà da affrontare anche i rispettivi Parlamenti. Sta di fatto che tale papocchio è stato bloccato e quello che era il piano B è diventata la soluzione finale. Ancorché “provvisoria”, come si sono affrettati a precisare anche sul Financial Times.

Non è chiaro quale quota dei 50 miliardi di dollari – la cui velocità di assorbimento da parte di Kiev è tutta da valutare – finirà in aiuti militari e quale quota sarà destinata alla ricostruzione.

Condizioni essenziale affinché, almeno nei prossimi anni, questo schema funzioni è che gli le attività russe sequestrate continuino a generare proventi. Fatto che nessuno può garantire. È stato però risolto – non si sa come – l’altro dubbio relativo alla durata del sequestro per tutto il tempo (prevedibilmente lungo) in cui sarà in piedi il prestito. La Russia non rivedrà i propri beni fino a quando non sarà stato rimborsato l’ultimo centesimo dei prestiti emessi dai membri del G7.

E questo aspetto apre più di una crepa sul fronte della tenuta dell’euro. Perché proprio mercoledì la Bce ha pubblicato un rapporto in cui mostra il calo, seppure modesto, dell’euro come moneta usata negli scambi internazionali, in combinazione con l’ascesa della valuta cinese. Ma, soprattutto, viene evidenziato e sottolineato anche nei commenti, che a fine 2023 le riserve delle altre banche centrali denominate in euro erano diminuite di circa 100 miliardi. Un calo del 5% circa. Da Francoforte hanno fatto esplicitamente notare che sulle scelte di alcune banche centrali (Svizzera e Giappone in testa) hanno influito anche le “misure legate alle sanzioni”. E, quel che è peggio, questa influenza potrebbe continuare anche in futuro.

Di fronte a questo scontro con il principio di realtà, il poco si è rivelato meglio del nulla. Con il significativo pregio, di cui bisogna dare atto a Giorgia Meloni, di essere riusciti a sbarrare il passo all’imbarazzante piano Usa. Ma di questo non troverete alcuna traccia sui giornali italiani (e non solo).

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