La prossima ristrutturazione del debito in Argentina analizzata da Ramiro Castiñeira (Chief Economist presso la società argentina di studi macroeconomici Econométrica) e Paolo Rizzo (Direzione generale per l’Occupazione, gli Affari sociali e l’Inclusione della Commissione europea)
COME SI È ARRIVATI ALLA RISTRUTTURAZIONE
L’Argentina ha annunciato di aver ufficialmente raggiunto un accordo per la ristrutturazione del debito: una notizia non scontata, considerata la storia creditizia del paese e le difficoltà economiche generate dall’attuale crisi. Il governo ne esce politicamente rafforzato ma adesso dovrà affrontare i problemi endemici dell’economia.
Da mesi si parlava con insistenza di un nuovo default argentino, il nono della storia del paese. Si evocava lo spettro della bancarotta del 2001: un evento che ha segnato indelebilmente l’economia, tanto che solo nel 2016 l’Argentina era tornata a finanziarsi sui mercati. Il programma economico dell’allora neoeletto presidente Mauricio Macri (2015-2019) prevedeva di ridurre il deficit fiscale e di finanziarlo sul mercato con titoli emessi in dollari. Ma il tasso di interesse concesso sui titoli emessi in dollari sotto legislazione statunitense fu del 7 per cento. Non ci si fidava ancora del paese, soprattutto dopo gli anni della presidenza di Cristina Kirchner (2007-2015) durante i quali i dati economici erano stati falsificati dal governo e il deficit era monetizzato.
La ricetta economica di Macri di ridurre gradualmente il deficit si scontrò presto con le difficoltà nel diminuire la spesa pubblica (figure 1 e 2) e l’impossibilità di centrare gli obiettivi di crescita economica.
Persa nuovamente la fiducia dei mercati, nei primi mesi del 2018, il peso argentino dimezzò il suo valore rendendo insostenibile l’esposizione in dollari. Il conseguente prestito di 44 miliardi di dollari concesso dal Fondo monetario internazionale impedì il disastro economico. Per arginare la caduta del peso, il governo di Macri aveva optato per un ritorno a un tasso di cambio fisso e alle restrizioni al movimento di capitali.
Il paese ereditato dal presidente Alberto Fernández nel dicembre del 2019 era già sull’orlo della bancarotta. Il debito pubblico a fine 2019 ammontava a 323 miliardi di dollari, il 90 per cento del Pil. Di questi, 66 miliardi erano denominati in dollari sotto legislazione estera e dovuti a creditori privati, 42 denominati in dollari ma sotto legislazione nazionale e dovuti a privati e istituzioni nazionali, 44 all’Fmi e 34 al Club di Parigi. Era un’esposizione maggiore rispetto al 2001, quando i 144 miliardi di debito denominati in dollari rappresentavano il 50 per cento del Pil (figura 2). Eppure, è difficile comparare le due crisi perché nel 2001 il paese era arrivato al default dopo quasi dieci anni di parità tra il peso e il dollaro. Come riconosciuto dall’Fmi, la percentuale debito pubblico/Pil nel 2001 era “misleadingly low” (ingannevolmente bassa).
(Articolo pubblicato su lavoce.info)
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