Tra gli italiani dopo Bartali e Coppi, lui. Ma guardandolo negli occhi non avvertivo la sensazione di essere al cospetto di uno dei più grandi ciclisti di tutti i tempi. Anche se parlando di Merckx, il suo avversario per eccellenza, mi disse: “Secondo me è stato il più grande di sempre: aveva doti naturali straordinarie ma poi in Eddy c’era l’applicazione, la volontà, il carattere. Una macchina costruita per vincere”.
Quegli occhi esprimevano mitezza e compostezza, ci leggevo l’umiltà del vero, grande campione che non dimenticava le sue origini e correva per vincere ma anche per riscattare un’immagine bistrattata dell’Italia e della nostra gente: “Il fascino più importante e significativo per me è l’emblema della fatica, che ti mette sullo stesso piano di tanta povera gente che deve lavorare, tribolando. Ricordo a Liegi quegli italiani che venivano sotto il mio albergo a chiamarmi e applaudirmi: era gente che lavorava in miniera e faceva della mia vittoria motivo di riscatto. Non dimenticherò mai gli italiani che ho incontrato all’estero, per via delle mie corse: avvertivo la loro sofferenza e correvo anche per loro.
Sentivo la loro nostalgia per il nostro Paese: io portavo loro il ricordo della patria lontana, quando gli italiani erano chiamati “maccaronì”.
Non aveva appeso mai la bici al chiodo, nonostante lo scorrere degli anni: “Vado la domenica, adesso uso spesso la mountain bike perché la strada è diventata pericolosa. Controllo meglio il mezzo, vado più piano e mi diverto di più.
Ho aperto una scuola di mountain bike per bambini, credo che per loro sia più facile iniziare con questo mezzo…”. Gli sollecitai qualche consiglio da dare ai ragazzi: “Di non avere mai un rapporto esasperato e agonistico con il mezzo e gli altri ciclisti ma di cercare invece un contatto diretto con la natura. Ci sono tanti bambini in città che non conoscono tipi e qualità degli alberi e delle piante. Purtroppo – questo è il grosso problema – le nuove generazioni non potranno più fare a meno delle tecnologie: per questo crescerà sempre di più il bisogno fisico, organico, di scaricare la tensione psicologica e lo stress fisico. Ecco che la bicicletta è il mezzo ideale per questa scarica di adrenalina, inoltre permette di riappropriarsi dello sfogo fisico, della fatica e dell’esercizio come valvola di scarico psicologico e garanzia di stile di vita fisicamente corretto e salutistico”.
E ricordando la sua fantastica carriera si esprimeva con la consapevolezza dei traguardi raggiunti (il Giro d’Italia, il Tour de France, la Vuelta, il titolo iridato, quello di campione d’Italia e una serie infinita di corse di linea) – “Avevo fatto due anni di gare e vittorie prima che arrivasse Merckx ed ero forse considerato senza presunzione il numero uno al mondo. Avevo vinto di seguito il Tour, la Parigi- Roubaix, la Parigi-Bruxelles, il Giro di Lombardia. Quando è arrivato lui io ho impiegato un paio d’anni sotto il profilo psicologico ad adattarmi a lui: Merckx mi ha tolto ma mi ha anche dato” – esprimeva la consapevolezza del senso del limite. “Mi ha tolto tante vittorie ma anche un modo di correre audace, ho imparato tattica e prudenza”.
Gli chiesi del suo rapporto professionale con Pantani e si fece triste, parlandone”: Fui suo presidente, gli ero amico e voglio ricordare Marco il giorno in cui salii con lui sul palco a Parigi quando vinse il Tour: io ero stato l’ultimo italiano a vincerlo prima di lui. Ebbe una fortuna e una grandezza immensa che furono sprecati banalmente più sotto il profilo umano che atletico. A trentatre anni si diventa uomini, non si può morire”.
Anche se ancora oggi la sua fine resta avvolta in molti misteri irrisolti.
Gimondi aveva una sua filosofia del ciclismo, sempre coerente e trasmessa come valore sportivo ed etico: “Tutta la vita richiede impegno diretto, conoscenza, sacrificio, fatica: il merito esce fuori da queste prove non dalle cose facilitate o dalle aristocrazie già stabilite. Tutti devono essere messi in condizione di competere, alla pari. Credere in sé stessi, migliorarsi, superare le difficoltà con le proprie forze, metterci impegno e motivazione. Conta ciò che si ha dentro, che si pensa in modo corretto e onesto: non l’apparenza e neanche quello che gli altri possono pensare di te. Le risorse, tutte, sono dentro di noi”.
Non gli evitai la domanda forse più banale ma cercando di pescare nel suo intimo: “Sig. Gimondi, nella Sua carriera Lei ha indossato molte maglie, di tanti colori. Tra il giallo, l’iridato e il rosa, qual è quello che è rimasto nel suo cuore?”. Mi rispose: “Il giallo è certo il più importante, dal punto di vista sportivo: il Tour de France è la corsa ciclistica più prestigiosa e completa al mondo, si svolge nel pieno della stagione agonistica, sono 22 giorni di gara che ti chiedono il massimo e poi c’è la presenza più qualificata di atleti. Ma certo anche il rosa ha il suo valore, così come l’iridato di campione del mondo. Personalmente però ho nel cuore la maglia tricolore, di campione d’Italia. Sono sempre stato orgoglioso di portare i colori della mia bandiera sulle strade del mondo”.