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Scalfari

Repubblica è sempre stato un giornale-partito

Repubblica? Non c’è un giornale-partito che ammetta la sua natura, col diritto di criticare ma anche di essere criticato. E di non nascondersi dietro le proprietà dichiarandosene sempre e comunque estraneo. Come se gli editori avessero politicamente il sesso degli angeli. Il corsivo di Damato

Per favore, non lasciatemi morire affogato, per giunta alla mia età, a 85 anni dei quali quasi 65 vissuti nei giornali, in questo oceano di bugie e di ipocrisie sulla libertà di stampa minacciata dalla guerra in corso ad alta intensità politica fra la premier Giorgia Meloni e la Repubblica di carta, o viceversa. Un oceano nel quale ho visto – ahimè – galleggiare l’altra sera in un salotto televisivo anche il mio amico, e bravissimo giornalista prestatoci dalla storia che sa insegnare come pochi: Paolo Mieli. Che pure ha vissuto anche lui l’esperienza di un giornale-partito come Repubblica, prima di salire sull’Olimpo del Corriere della Sera, autentico o non che sia, dirigendolo per due volte. Dai, Paolo, sii buono.

Prima dei partiti in Italia – non importa se ammazzati dalle Procure della Repubblica o suicidatisi di loro con la pratica generale del finanziamento illegale, col quale sopperire al finanziamento ipocritamente troppo modesto assegnatosi per legge – sono moti i loro giornali ufficiali. Che pure erano stati molte volte scuole autentiche di giornalismo: dall’Avanti all’Unità. Erano morti quei giornali per mano di altri che avevano deciso di fare non solo informazione e commento ma anche politica vera e propria sotto le false insegne di testate “indipendenti”. Giornali che non a caso sottraevano copie e giornalisti ai quotidiani di partito, sino ad accelerarne la fine prima ancora che cominciassero a chiudere le edicole per un progressivo numero di copie invendute, spesso sostituite da giochi e simili.

Nel 1974 Indro Montanelli, uscitosene dal Corriere smottato per lui troppo a sinistra, sino a licenziare da un momento all’altro il suo amico direttore Giovanni Spadolini; Montanelli, dicevo, e tutti noi che ci arruolammo con lui, dallo stesso Corriere e da altre testate, non sapevamo forse di stare realizzando un giornale-partito contro la prospettiva del cosiddetto compromesso storico fra la Dc e il Pci? Un giornale che, dovendo rivolgersi ad un lettorato prevalentemente democristiano e anticomunista, il laicissimo Montanelli volle fare uscire solo dopo il referendum promosso contro il divorzio. Una campagna nella quale egli non volle impegnarsi a favore della riforma passata in Parlamento, che condivideva, proprio per non compromettere i rapporti con una parte di quelli che sarebbero stati i suoi lettori. Ai quali – mi confidò in quei giorni – volle anche offrire come gesto di rispetto il matrimonio in municipio, a Cortina d’Ampezzo, dopo la sua lunga convivenza con Colette.

La presa del Giornale di Montanelli non solo sugli elettori ma anche sui parlamentari della Democrazia Cristiana fu tale che una volta sorpresi il buon Flaminio Piccoli borbottare nei corridoi di Montecitorio contro noi del Giornale, appunto, che riuscivano a “indottrinare “i deputati del suo gruppo più di lui. Erano i tempi in cui i parlamentari democristiani dovevano praticare la tregua e la cosiddetta solidarietà nazionale col Pci dopo un turno di elezioni anticipate, nel 1976, conclusosi con quelli che Aldo Moro chiamò “due vincitori”, la Dc e il Pci: l’una incapace di fare a meno dell’altro se non tornando ricorrentemente alle urne e riducendo sempre di più lo spazio dei patiti intermedi. Dei quali invece i due partiti maggiori avevano bisogno per riprendere a lavorare per maggioranze che li rendessero uno autonomo dall’altro.

E la Repubblica portata da Eugenio Scalfari nelle edicole nel 1976, a ridosso della tregua e della solidarietà nazionale fra la Dc e il Pci, non nacque forse per contrapporsi al Giornale e sostenere quella svolta che Montanelli non vedeva l’ora di vedere finire. E sempre la Repubblica di Scalfari, nel frattempo diventata di proprietà di Carlo De Benedetti, non fu il partito dell’opposizione al ritorno dell’alleanza fra i democristiani e i socialisti con Bettino Craxi, lo sforbiciatore della barba d Marx?

Del governo Craxi, fra il 1983 e il 1987, non passava giorno senza che Scalfari non facesse annunciare con titoloni di prima pagina l’imminente caduta. Che alla fine giunse, per carità, ma al prezzo di un governo monocolore democristiano presieduto da Amintore Fanfani al quale gli stessi democristiani alla Camera negarono la fiducia per fornire a Francesco Cossiga, al Quirinale, la ragione per la quale sciogliere le Camere, come reclamato a Piazza del Gesù da Ciriaco De Mita. Non ricordo in quei giorni uno straccio di costituzionalista, fra i tanti che vi collaboravano, insorto su Repubblica contro quell’operazione.

Non parliamo poi di ciò che accadde nell’epilogo più giudiziario che politico della cosiddetta prima Repubblica. Allora i giornali-partito divennero insieme giornali-procure: tutti a inseguire l’andamento peraltro unidirezionale delle indagini sul finanziamento illegale, corruzione, concussione e quant’altro. I quotidiani si scambiavano ogni sera notizie e titoli del giorno dopo. Gli avvisi di garanzia diventavano avvisi alla gogna, le custodie cautelari anticipi di pena, i suicidi prove lodevoli di dignità, le difese degli indagati o imputati sfacciate complicità.

La cosiddetta “discesa in campo” di Silvio Berlusconi doveva servire solo a salvarlo dal carcere che meritava per essere stato aiutato dalla vecchia politica finita più o peno in manette a fare le sue fortune di imprenditore edile e editore. Ci sono voluti trent’anni da allora e quasi uno dalla sua morte, con le ceneri ben custodite nel mausoleo di Arcore, per poter leggere anche su Repubblica che non fu uno scherzo di plastica. E che quei nove minuti scarsi di registrazione del messaggio televisivo del Cavaliere una rivoluzione nella comunicazione politica. L’inizio di un nuovo percorso su cui tutti, a destra e a sinistra, si sarebbero rincorsi sino a perdere il fiato, e a volte anche la testa.

In uno scenario politico, mediatico, sociale del genere, nella proliferazione delle Repubbliche – prima, seconda, terza, quarta, almeno quella della omonima rete televisiva – a Costituzione sostanzialmente invariata, salvo la riduzione dell’immunità parlamentare, una caotica modifica del titolo quinto sulle regioni cui si sta cercando di rimediare, e un auspicio- nulla di più- di giusto processo; in uno scenario del genere, dicevo, coi giornali-partito che ormai occupano i tre quarti dello spazio, ci scanniamo un po’ tutti a parlare della libertà di stampa conculcata, di voglie di censura, di duci, ducetti e ducette all’assalto di questa o quella testata, come se fosse una casamatta.

Non c’è un solo giornale-partito, con tanto di campagne avviate e condotte con titoli a caratteri di scatola, che ammetta la sua natura, e i relativi inconvenienti. Che sono quelli di darle e prenderle, diciamo così. Qualcuno come l’apparentemente mite Maurizio Molinari, fra una consultazione e l’altra delle sue carte nautiche o geo-politiche, invoca una specie di diritto all’extraterritorialità, con la redazioni avvolta nella bandiera di ordinanza. Non c’è un giornale-patito che ammetta la sua natura, col diritto di criticare ma anche di essere criticato. E di non nascondersi dietro le proprietà dichiarandosene sempre e comunque estraneo Come se gli editori, peraltro, avessero politicamente il sesso degli angeli, e i cosiddetti conflitti d’interesse fossero solo e sempre quelli degli altri.

Ma chi volete prendere in giro, signori opportunisticamente scandalizzati o preoccupati? Abbiate il coraggio di essere quelli che siete e di comportarvi da uomini. Fate pure la vostra opposizione al governo o all’opposizione, fra le varie, che vi piace ancor meno del governo; mescolate pure il vero col verosimile o col falso; sostituite alla scena il retroscena di turno, magari inventato di sana pianta, e reagite alle smentite confermando tutto con l’assicurazione di averlo appreso da fonte tanto “buona” quanto indistinta. Ma per favore – direbbe persino il Papa – decidetevi a darvi finalmente una calmata, una misura. E a salvare quel poco che ancora resta della nostra vera libertà di stampa.

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