Non giriamoci intorno: la Brexit è stata una catastrofe economica totale. Basta leggere un nuovo studio di un team internazionale di economisti, pubblicato dal National Bureau of Economic Research. “Entro il 2025, la Brexit avrà ridotto il Pil del Regno Unito del 6–8 per cento, con un impatto che si è accumulato gradualmente nel tempo”, concludono Nicholas Bloom, Philip Bunn, Paul Mizen, Pawel Smietanka e Gregory Thwaites in The Economic Impact of Brexit.
“Stimiamo che gli investimenti si siano ridotti tra il 12 e il 18 per cento, l’occupazione del 3–4 per cento e la produttività del 3–4 per cento”, aggiungono. Le cause di questo disastro economico, paragonabile a una massiccia recessione? “Questi forti impatti negativi riflettono una combinazione di incertezza elevata, domanda ridotta, tempo manageriale dirottato e maggiore cattiva allocazione delle risorse dovuta al lungo processo della Brexit”.
LA BREXIT HA DANNEGGIATO ANCHE L’UE
La Brexit ha danneggiato anche l’Ue. Le catene di approvvigionamento sono diventate più difficili da gestire. Le nuove pratiche burocratiche assorbono risorse finanziarie e umane delle imprese. Il commercio attraverso la Manica è diventato più complicato e meno redditizio. Le nuove strutture doganali costruite, per poi non essere mai utilizzate dopo il “reset” nelle relazioni Ue–Regno Unito di quest’estate, sono una testimonianza da 900 milioni di euro di questo colossale spreco di denaro pubblico. In più, l’Ue ha perso la City di Londra, uno dei principali centri finanziari del mondo.
Con l’uscita dall’Ue, i britannici hanno inflitto un danno geopolitico enorme – sia a sé stessi, sia agli europei. Un’Unione con due potenze nucleari e due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu avrebbe molta più facilità nel difendere i propri interessi nel mondo di Donald Trump, Vladimir Putin e Xi Jinping. E dato il nuovo leitmotiv europeo sulla competitività economica, il “vangelo” di Mario Draghi sul cambiamento radicale per evitare una “lenta agonia”, troverebbe maggior sostegno tra i decisori britannici, orientati al commercio e al mercato, rispetto ai corridoi della politica di Bruxelles.
Il popolo britannico si è già pentito del colossale autogol del 23 giugno 2016. Basti guardare il sondaggio YouGov pubblicato in occasione del nono anniversario del referendum: il 56 per cento dei britannici pensa che sia stato un errore lasciare l’Ue. Solo il 31 per cento ritiene ancora che la Brexit sia stata una buona idea. Da quando, nel 2021, la Brexit è passata dal sogno euforico alla realtà dolorosa, il divario tra “Remainers” e “Leavers” si è allargato.
BRETURN, O IL RIENTRO DEL REGNO UNITO
Un “Breturn”, cioè il rientro del Regno Unito nell’Ue, sembrerebbe quindi un’ovvietà. “Fondamentalmente, il Regno Unito appartiene alla famiglia europea. E dunque, in linea di principio, appartiene anche all’Ue. La Brexit è stata, in fondo, un atto di autolesionismo”, spiega Steven Everts, direttore dell’European Union Institute for Security Studies, al Mattinale Europeo. Ma perché nessuno – né a Westminster, né nelle capitali europee, tanto meno a Bruxelles – prende l’iniziativa per rimediare? “Ovviamente, se non si è seguita la psico-drammatica degli ultimi quindici anni, ci si potrebbe chiedere: perché non sono insieme?”, osserva Everts. “Beh, è una questione politica. Come molti governi, anche questo governo laburista, nonostante la sua larga maggioranza parlamentare, è terrorizzato dalla stampa anti-Ue. E questo ha messo il primo ministro Starmer in un angolo”.
Il risultato è un approccio timido e frammentario nel Regno Unito, concentrato su questioni minori e tecniche. Vale anche per l’Ue. Basti pensare all’accordo di mercoledì 12 novembre in Consiglio, che autorizza la Commissione ad avviare negoziati con Londra su un’intesa per un’area sanitaria e fitosanitaria comune e per collegare i sistemi di scambio delle emissioni dell’Ue e del Regno Unito. Ci sono voluti sei mesi dopo il “reset” per arrivare a un’intesa su questi temi necessari, ma marginali. Se il Regno Unito non avesse lasciato l’Ue, nessuno di questi accordi sarebbe stato necessario.
“Ci stiamo impantanando in piccole questioni, e lo facciamo in modo divisivo”, afferma Everts. “Stiamo negoziando su temi secondari come le esportazioni agroalimentari o la mobilità degli studenti. Importanti, certo, ma non all’altezza delle sfide del nostro tempo. Viviamo in un mondo in fiamme. Dovremmo restare uniti”, spiega Everts. Ma come?
COSA DICONO I SONDAGGI
Lo stesso sondaggio YouGov mostra che il 56 per cento dei britannici ora è favorevole a rientrare nell’Ue, e il 65 per cento vorrebbe aderire senza tornare nel Mercato unico e nell’Unione doganale. Tuttavia, non considerano questa una priorità politica. Il 44 per cento ritiene che un “Breturn” sarebbe oggi una priorità sbagliata per il governo; solo il 37 per cento lo considera la questione politica principale da affrontare. Solo alla domanda se tenere un referendum per il rientro tra 25 anni, una chiara maggioranza del 52% si dichiara favorevole (contro il 26 per cento contrario).
Ovviamente, nessun politico europeo rischierebbe capitale politico per sostenere una campagna per il ritorno dei britannici nel club. “Abbiamo leader che fanno politica partendo dal presupposto che verrebbero massacrati alle urne se facessero mosse audaci”, osserva Everts, che dopo un decennio al Centre for European Reform di Londra ha lavorato nel gabinetto dell’Alto rappresentante, Javier Solana nel 2005, servendo poi per quasi vent’anni nel Servizio europeo per l’azione esterna. “Nel breve termine prevale sempre ciò che è considerato ‘fattibile’. Ma così perdiamo la visione d’insieme, e l’occasione di ‘creare il nostro destino’. È ciò che dovrebbero fare sia l’Ue sia il Regno Unito: guardare al quadro generale e fondare su questo le politiche, invece di procedere dal basso, questione per questione, dove lo status quo e i soliti veti bloccano tutto”.
Il nuovo approccio dell’Ue all’allargamento potrebbe offrire spazio a un pensiero politico più creativo. “Siamo prigionieri dell’idea dell’indivisibilità delle quattro libertà”, osserva Everts, riferendosi a una certa ortodossia dei decisori di Bruxelles. Ma l’idea di un’integrazione graduale, sostenuta dal commissario all’Allargamento, Marta Kos (con i paesi che aderiscono in alcuni settori prima di entrare nel Mercato unico) potrebbe essere offerta anche al Regno Unito. Energia e difesa sarebbero campi adatti a questa strategia.
“Sull’Ucraina, siamo completamente dalla stessa parte”, spiega un alto diplomatico dell’Ue al Mattinale Europeo. Tuttavia, la lunga battaglia per far partecipare Londra al programma SAFE per il riarmo mostra quanto la strada sia in salita. L’adesione piena, in ogni caso, è ancora troppo lontana per i Ventisette. “Per quanto riguarda l’accesso al Mercato interno, è comprensibile che ciascuno difenda i propri interessi”, aggiunge il diplomatico.
VANTAGGIOSO, MA IMPOSSIBILE
Un “Breturn” sarebbe altamente vantaggioso per il Regno Unito e per l’Ue, ma è impossibile nelle attuali condizioni politiche. “Al momento, sembra che la politica Ue–Regno Unito sia gestita da sondaggisti e tecnocrati. Stiamo perdendo la foresta per guardare solo gli alberi”, lamenta Everts. Eppure anche che i britannici dovranno adattare la loro visione del mondo – e dell’Europa – ai tempi che viviamo. “Devono capire che l’appartenenza all’Ue implica la condivisione della sovranità. E le nostre relazioni devono essere stabili. Non vorremmo dover rinegoziare tutto da capo con un ipotetico primo ministro Farage tra due anni, per esempio”.
(Estratto dal Mattinale europeo)






