Osserva Fubini sul Corriere on line che al referendum di domenica 20 settembre il No ha vinto quasi solo nei quartieri delle grandi città dove il tenore di vita dei residenti, desunto dall’entità degli affitti e dal valore degli immobili, è più alto e dove più alta è l’incidenza di laureati, e quindi il livello culturale. Ovviamente questa osservazione andrebbe approfondita con altri indicatori, per esempio di tipo fiscale (incrociando le dichiarazioni dei redditi e le tasse comunali con gli indirizzi dei contribuenti), il tasso di scolarità e la ripartizione tra le diverse tipologie di Istituti Scolastici della zona, il numero di quotidiani venduti, ecc. Tuttavia non c’è dubbio che già gli indicatori utilizzati da Fubini delineino un gruppo sociale dalle caratteristiche abbastanza chiare: persone a reddito medio e alto, professionisti, lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti con responsabilità direttive, e simili.
IL CONFRONTO CON IL REFERENDUM DEL 2016
Tuttavia sarebbe un grave errore pensare che abbiamo a che fare con “elites” conservatrici, nemiche del cambiamento e nostalgiche dei bei vecchi tempi. Basta fare un semplice confronto col voto referendario del 2016 (modifica costituzionale voluta da Renzi): i Sì di allora sono quasi sovrapponibili con i No di adesso. Il voto del 2016 sollecitava un esplicito assenso ad un disegno vastamente riformatore, inteso a separare la natura e le competenze delle due Camere, ad un nuovo modello istituzionale dell’Esecutivo, a nuove procedure elettorali. Tutto si può dire, tranne che compiacesse a disegni conservatori. Bene: a Milano il Sì prevalse in 6 Municipi su 9, con punte sopra il 60% nella Cerchia dei Navigli. Il Sì andò diluendosi via via che si passava dal Centro alla Periferia, fino a trasformarsi in No fuori dall’area metropolitana, per tornare però ad essere Sì nelle aree urbane delle principali città lombarde.
Un andamento del tutto comparabile con quello del recente referendum, cambiando i Sì con i No, e tenendo presente che gli attuali No sono inferiori di numero rispetto ai Sì del 2016. Perché? Probabilmente per stanchezza, oltre che per una maggior presa dell’argomento populista: vendichiamoci della casta mandandoli a casa! Si può legittimamente ritenere che chi oggi ha votato No lo abbia fatto in polemica con coloro che 4 anni fa hanno affossato una riforma complessiva e funzionale per proporre adesso un inutile taglio alla rappresentanza, ridicolo senza tutto il resto della riforma costituzionale. Tuttavia l’analisi (l’abbiamo esplicitata su Milano, ma tutte le medio grandi città del Nord restituiscono andamenti analoghi) ha un riscontro importante nelle elezioni amministrative: mentre il “contado” e i centri minori votano generalmente a destra (vedi risultati delle elezioni regionali) le città e di solito i centri più urbanizzati votano a sinistra: Milano, Brescia, Bergamo, Varese, Mantova, ecc. Ma il voto sembra passare da una scelta di sinistra dal centro città ad una verso la destra andando in periferia.
DESTRA E SINISTRA
Siamo di fronte ad una stramba riedizione del “voto di classe” in cui i ceti subalterni votano a destra e i ceti egemoni a sinistra? Bisognerebbe mettersi d’accordo, come diceva Gaber, su cos’è destra e cos’è sinistra. Sinistra per decine d’anni è stata garanzia di provvidenze per i poveri e per i lavoratori che avevano bisogno di protezione nel lavoro e nella società. Ma, guarda un po’, a un certo punto i lavoratori, soprattutto delle manifatture del Nord, han pensato che qualcuno avrebbe potuto tutelarli meglio rispetto a bisogni che parevano fondamentali: meno tasse e andare in pensione prima. E quest’esigenza ha trovato risposta (da tempo, come segnalavano già negli anni scorsi le ricerche della FIOM) nelle parole d’ordine della Lega. Il senso di incertezza, paura, sfiducia nel futuro provocato dalle ultime crisi economiche ha generato diffidenza e ostilità verso tutto ciò che è “alieno” (la U.E., gli immigrati) e verso ogni cambiamento: rinchiudersi a riccio nella realtà conosciuta e approvare soltanto ciò che la rafforza (guerra alla “casta”, perché quando si ha paura si ha bisogno di un colpevole da punire; estensione dell’assistenzialismo, perché conforta e dà sicurezza); tutto questo si traduce in sovranismo politico e aspirazioni autarchiche in economia. Occorre anche dire che queste posizioni hanno riscontro in molte scelte del Sindacato, preoccupatissimo di perpetuare le tutele ereditate dal ‘900 per i propri rappresentati (operai dell’industria, insegnanti, pubblici dipendenti), fornendo così una copertura “di sinistra” a rivendicazioni che invece galleggiano sulla superficie di un complesso di idee fortemente conservatrici e spesso reazionarie.
Nella sostanza ci ritroviamo in una situazione in cui i ceti più colti, intraprendenti e benestanti votano per chi propone le riforme e l’apertura al nuovo, mentre i ceti più “popolari” (chiamiamoli provvisoriamente così) votano per chi chiede la conservazione e la chiusura.
LA COINCIDENZA FRA VOTO E FASCE DI REDDITO
E’ interessante notare la parziale ma significativa coincidenza tra scelte elettorali e fasce di contribuzione fiscale (e dunque di reddito dichiarato). Quasi il 60% dei contribuenti va da una imposta negativa fino ad un massimo di 150 €/mese. In questa fascia si concentrano tutti i principali benefit fiscali e le assistenze (esenzioni da ticket e imposte, detrazioni, reddito di cittadinanza, integrazioni al reddito, sostegni alle pensioni, ecc.). Per capirci, i redditi più alti di questa fascia sono di 20.000 €/anno, quindi circa 1.500 al mese lordi: una retribuzione media, anche se non bassa, di un dipendente. E’ ovvio che in questa fascia si nasconde anche la gran maggioranza degli evasori dell’imposta sul reddito, a partire dai lavoratori e datori di lavoro in nero, ma questo non modifica il tratto specifico di questo gruppo: si tratta di cittadini che farebbero fatica a vivere senza assistenza, e quindi la loro prima preoccupazione è che il sistema non cambi. Innovazione, meritocrazia, mobilità sociale sono prospettive che fanno paura. Scelgono in prevalenza l’opzione politica che garantisce la conservazione del sistema.
Viceversa i contribuenti di fascia superiore beneficiano assai meno di assistenza, e sono maggiormente interessati ad aumentare il proprio reddito, vedono quindi l’innovazione come un’opportunità, la meritocrazia come un riconoscimento dell’intraprendenza, la mobilità sociale come un obiettivo da perseguire. Privilegiano scelte politiche riformatrici e considerano il sistema attuale come inadatto a promuoverle, inefficiente, invadente e sostanzialmente a carico di una minoranza che paga l’assistenza ad una maggioranza.
E’ chiaro che si tratta di una semplificazione, e che in ciascuna fascia esistono orientamenti elettorali diversi, ma se sovrapponiamo le fasce di reddito alle aree di residenza dei contribuenti vediamo, come detto all’inizio, che in larga parte confermano quest’analisi.
Azzardiamo una conclusione: i ceti meno abbienti sostengono un welfare state conquistato nel ‘900 dalla sinistra politica, dal cattolicesimo sociale e dal sindacato; nel farlo aderiscono a idee di sovranismo e autoritarismo che erano tipiche della destra conservatrice. I ceti più colti e benestanti si orientano su scelte politiche che privilegiano le libertà d’impresa e individuali, l’uguaglianza di opportunità anziché l’egualitarismo, il cambiamento del sistema nei suoi snodi critici (assistenza, tassazione, istruzione). I primi sono favorevoli alla presenza dello Stato nel sistema delle imprese per garantire che abbiano per obiettivo l’utile comune e non il profitto, i secondi sono contrari perché non vogliono che i soldi dei contribuenti vengano spesi per assicurare l’occupazione in aziende senza futuro o in burocrazie inutili.
Se volessimo appiccicare delle etichette “novecentesche” i primi sarebbero conservatori, i secondi liberali. Con la differenza che i conservatori dell’800-900 difendevano gli interessi di una upper class privilegiata e minoritari, sconfitta infatti col prevalere del suffragio universale, mentre oggi rappresentano una lower class protetta e maggioritaria.
Da questo punto di vista il teorema della “società dei 2 terzi” si rovescia nel suo opposto: due terzi di assistiti e un terzo che paga per la loro assistenza.
Si tratta, ovviamente, di una semplificazione rispetto alla realtà delle scelte individuali, che è più frastagliata. Ma credo che complessivamente rappresenti abbastanza il quadro dell’incrocio tra ceti sociali e scelte politiche.
Dopodiché, preso atto con tutta la possibile imparzialità dello scenario che ho tentato di descrivere, mi prendo la libertà di esprimere col maggior understatement possibile un giudizio che riprendo da Mattia Feltri su Huffington Post: il bipolarismo ormai non è più fra destra e sinistra ma fra chi non si fida più delle regole della democrazia liberale occidentale e chi se ne fida ancora, cocciutamente, fino all’ultimo. Da qui bisogna ripartire.