Il ministro Raffaele Fitto – 55 anni compiuti l’altro ieri, nato a Maglie come il compianto Aldo Moro, democristiano di origine familiare e controllata, approdato nel partito di Giorgia Meloni dopo un passaggio per Forza Italia gestito dalla buonanima di Silvio Berlusconi come peggio, francamente, non poteva fare, o non potevano fargli fare quelli del cerchio magico di turno ad Arcore – è destinato alla nuova Commissione dell’Unione Europea con un portafogli di mille miliardi di euro su designazione, naturalmente, del governo italiano e con l’appoggio del Pd annunciato, prima che altri al Nazareno e dintorni potessero smentirlo, dall’eurodeputato del partito di Elly Schlein più votato nelle elezioni europee di giugno. Si tratta di Antonio Decaro, che prese nella circoscrizione del Sud 495 mila voti di preferenza, più del doppio dei 240 mila raccolti dalla capolista Lucia Annunziata, imposta da Roma.
Già sindaco di Bari e presidente dell’associazione nazionale dei Comuni italiani, Antonio Decaro, ha testualmente dichiarato al Foglio: “Al netto delle differenze e delle distanze politiche, note a tutti, tra me e Raffaele Fitto, posso dire che in questi anni in cui abbiamo lavorato insieme sull’attuazione del piano nazionale di ripresa nei comuni italiani, credo abbiamo dimostrato di sapere mettere l’interesse del paese davanti a tutto. Non sono mancati i diverbi, ma entrambi riconoscevamo all’altro la correttezza e l’onestà intellettuale delle reciproche posizioni. Spero di poter continuare a lavorare allo stesso modo nei prossimi mesi in Europa”.
Non Fitto ma Fittissimo, direi a questo punto del percorso del trasferimento del ministro degli affari europei da Roma, e dalla sua Puglia, a Bruxelles. Alla faccia anche qui, come dopo i 90 minuti di colloquio a Palazzo Chigi fra la premer e il presidente del primo gruppo dell’Europarlamento, il tedesco Manfred Weber, peraltro reduce da un incontro proprio con Fitto; alla faccia, dicevo, dell’isolamento dell’Italia in Europa addebitato a Giorgia Meloni dalle opposizioni, compresi il Pd e il quasi ritrovato e penultimo Mattei Renzi.
La ciliegina sulla torta sarebbe naturalmente anche una vice presidenza esecutiva della Commissione per il rappresentante italiano. Una ciliegina negata al commissario italiano uscente Paolo Gentiloni ai tempi di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi e che gli avversari della Meloni sperano naturalmente negata anche a Fitto, pur di continuare lo spettacolo e il racconto di un’Italia all’angolo nell’Unione. Ma non è detto che essi riescano in quest’altra avventura dell’autorete nazionale appena chiamata dal sempre più apparentemente mite Pier Luigi Bersani “l’autunno caldo” del governo. Che, diversamente da quello da lui tentato nel 2013 e impeditogli al Quirinale da Giorgio Napolitano, non è “di minoranza” velleitariamente orgogliosa. Ha la sua maggioranza, magari articolata come tutte quelle di coalizione sperimentate nelle varie edizioni di carta della nostra Repubblica.