Nell’angolo archeologico dove gli anni inevitabilmente relegano il cronista, che rivive l’attualità collegandola ai suoi ricordi, metto da parte i dissapori, che ho pur avuto con lui sino ad archiviare una sia pur lunga amicizia, e riconosco al collega Emilio Fede, morto a 94 anni compiuti a giugno, di essere stato un giornalista attivo, appassionato, valente come pochi altri che hanno avuto più fortuna di lui nell’esercizio della loro professione. Senza imbattersi in disavventure che, come tutte le disavventure, finiscono abitualmente per sommergere anche le avventure.
Non dimenticherò mai quella mattina dei primi anni Ottanta in cui fui invitato da lui nel suo ufficio di direttore del Tg1. Era una mattina caldissima d’estate, dalla quale lui si proteggeva con l’aria condizionata regolata al massimo, tanto da costringerlo a proteggere lo stomaco avvolgendolo in un maglione arrotolato. “Sono le correnti della Dc”, mi disse scherzando, ma non troppo.
Gli era infatti capitato di succedere da vice, e poi a titolo pieno, ad un direttore di anagrafe democristiana, nella lottizzazione praticata alla Rai, coinvolto e infine travolto dalla vicenda della P2, che era una loggia massonica speciale alla cui iscrizione, spesso persino inconsapevole, corrispondeva il sospetto, l’accusa e quant’altro di scalare affari e persino attentare alla sicurezza dello Stato.
Pur socialdemocratico di adozione, certificata anche dal matrimonio con la figlia di un allora potente vice presidente della Rai amico personale e fidatissimo di Giuseppe Saragat, Italo De Feo, a Emilio toccò quindi per tre anni di dirigere il tg maggiore dell’azienda pubblica. E per tre anni la Dc sopportò, sino a quando il segretario di turno, che era Ciriaco De Mita, non sbottò e non pretese il ristabilimento di quella che lui considerava la normalità: un democristiano doc, di fiducia, a quel posto. Non ci fu verso di ritardare ulteriormente il ripristino dell’ordine, diciamo così. Neppure giocando con la fede, al minuscolo, in qualche modo entrata nel curriculum di Emilio con qualche simpatia guadagnatasi in Vaticano. Dove il direttore del Tg1 veniva qualche volta invitato alle messe private del Papa, specie sotto Natale.
A quei tre anni in qualche modo anomali vissuti alla guida del maggiore – ripeto – telegiornale italiano, con ascolti di tutto rispetto e prestazioni professionali quasi da antologia, come la diretta televisiva, poi raccontata da un pezzo da novanta come Walter Veltroni, della morte di un bambino romano caduto in un pozzo, sono forse legati i ricordi migliori e più gratificanti della carriera giornalistica di Emilio. Sarebbe seguita la parte più insidiosa, rischiosa e faticosa, in un intreccio sfortunatissimo di cronaca politica e giudiziaria, di ingenita debolezza umana aggravata da una concorrenza sleale, fatta più di livore e di invidia che di racconto. Emilio, pur col gusto della sfida e dell’ironia, sino a scriverne lui stesso prendendosi a parolacce, ne ha sofferto molto e a lungo. Ora ha smesso davvero.