I personaggi con elevato carisma e innovativi allo stesso tempo hanno la caratteristica di lasciare un segno profondo nella storia. A volte il meccanismo non è immediato e talvolta nell’immediato, semmai, accade che emergano le critiche, ma il tempo a volte è più galantuomo dei giudizi degli uomini.
Così la fine degli otto anni del mandato di Draghi, dopo tanti onori e acclamazioni arrivati durante la fase più convulsa dell’euro, son arrivate le critiche che il carattere garbato e arguto di Draghi ha minimizzato come discussioni fisiologiche.
I giornali in questi giorni sono pieni di ricostruzioni cronologiche del mandato di Draghi, ma forse può far più onore al suo operato una ricostruzione per filoni tematici. Il suo mandato è iniziato all’insegna dell’obiettivo di riformare profondamente l’ispirazione ideologica della Bce senza però modificarne lo Statuto.
Un’operazione apparentemente titanica, visto che lo statuto dell’Istituto centrale era stato disegnato a immagine e somiglianza della Bundesbank, con l’obiettivo unico quanto quasi maniacale della stabilità dei prezzi.
L’esperienza dell’iperinflazione dell’epoca della repubblica di Weimar tra il 1920/1930 ha, infatti, segnato profondamente il mondo accademico tedesco. Il mandato di Draghi iniziò nel novembre del 2011. In quell’anno erano già iniziati a spirare i venti della crisi dell’area euro dopo le forti tensioni sul debito greco iniziate a metà 2010. In prossimità della successione da Trichet a un nuovo governatore, appariva sempre più evidente che le politiche monetarie convenzionali potevano rivelarsi non più sufficienti.
Così quello che sembrava essere il predestinato (se non altro nella logica dell’alternanza dei paesi) ossia l’allora presidente della Bundesbank Axel Weber, decise a sorpresa di dimettersi nell’aprile del 2011, ossia con un anno di anticipo sulla fine del mandato, di fatto rifiutando l’incarico di governatore Bce per evitare di doversi trovare nell’imbarazzo di perseguire politiche che avrebbero rinnegato i principi ispiratori su cui la BCE era stata costruita. Pochi mesi dopo si dimise anche l’allora capo economista della Bce, il tedesco Jurgen Stark.
Draghi arrivò pertanto con l’incarico quasi naturale di provare a riorganizzare la Bce per affrontare una crisi senza precedenti che avrebbe messo in discussione l’esistenza stessa dell’euro. Un compito da far tremare le vene e i polsi ma che Draghi ha sapientemente svolto in due fasi: prima acquisizione dell’autorevolezza necessaria e poi azione, per arrivare poi a scardinare l’impostazione tradizionale mediante una serie di misure non convenzionali che raggiunsero l’acme con la partenza del primo vero piano di Quantitative easing del 2015.
Il piano, però, fu preceduto dal celebre whatever it takes del luglio 2012, un’affermazione dal peso specifico molto forte se si considera che fu pronunciata al di fuori di un incontro di politica monetaria ufficiale. In questo modo Draghi si era di fatto assunto in pieno la responsabilità delle manovre che avrebbe poi di volta in volta messo in essere, sapendo già di dover scontrarsi con il no tedesco. La prima della serie fu l’annuncio del piano OMT nel 2012 che tuttora è rimasto solo un enunciato ma è servito a creare quel clima appunto di autorevolezza che ha consentito poi a “Mario” di riuscire a mettere in atto misure concrete.
Draghi, infatti, si limitò a far sapere ai mercati che se davvero avessero insistito a calcare la mano contro alcuni stati, sotto specifiche condizioni, la BCE sarebbe scesa in campo direttamente acquistando titoli con scadenza fino a tre anni di quel paese sul mercato secondario. Il piano in realtà fino ad oggi non è mai stato attuato ma servì molto a iniziare un processo di crescita dell’autorevolezza del governatore tale da trasformarlo da Mario in super Mario e dargli così lo slancio per il citato QE del 2015.
La storia più recente è meglio nota, fatta di estensioni continue e affinamenti delle manovre già implementate. Emulando un adagio pubblicitario secondo cui la potenza non è nulla senza controllo, nel caso di Draghi si potrebbe dire che la capacità di decidere non è nulla senza autorevolezza. Ma qual è il segreto della capacità di prendere decisioni difficili?
A questa domanda ha dato una risposta emblematica lo stesso Draghi in un discorso recente all’università Cattolica di Milano che, in parte, ricorda il discorso di Steve Jobs alla Stanford University del 2005, anche in quel caso davanti a una platea di giovani neo laureati. Ebbene, gli ingredienti magici resi noti da Draghi sono: coraggio, conoscenza e umiltà. Una sintesi tanto semplice quanto incisiva e rara da ritrovare, che suona come il testamento autorevole di un uomo che, a prescindere da quello che farà in futuro, ha già lasciato un segno e ben tre tracce precise per tutti coloro che si accingono a scelte difficili. Se Steve Jobs disse “rimanete folli e affamati”, Draghi sembra aggiungere: rimanete “coraggiosi, competenti e umili”.
Come dicevano i romani: “Intelligenti pauca” ossia, a buon intenditor poche parole.