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Commercio Russia

Vizi e pregiudizi di Putin

Da dove arriva il pensiero militare e politico di Putin nella guerra all'Ucraina. L'articolo di Livio Zanotti.

La merce più apprezzata erano i binocoli prismatici Carl Zeiss, per la loro celebrata ottica di Jena. Poi divise, stivali e cinturoni di cuoio, berretti d’ogni foggia ed elmetti di ferro smaltato, cappotti, giubbe, grappoli di distintivi, orologi e scarponi: il mercatino che svendeva i magazzini dell’Armata Rossa in Germania (310mila uomini armati, l’esercito più grande mai visto in tempi di pace, e 200mila civili, tra i quali Vladimir Putin) stava tutt’attorno alla Porta di Brandeburgo. Sempre gremito da folle di tedeschi, ai quali nei fine-settimana si aggiungevano turisti d’ogni parte. Probabilmente, il desiderio di una Rote Armee in saldo i tedeschi l’avevano da più di cent’anni, ma nel loro subconscio, senza averci mai sperato davvero.

Bastava inoltrarsi nella zona orientale appena riaperta dopo essere rimasta murata quasi trent’anni, in una qualsiasi delle parallele che corrono lungo la Unter den Linden, per essere avvicinati da qualche militare sovietico, per lo più asiatici, e sentirsi offrire radiogoniometri da campo, pneumatici per camion. Ad avvicinarsi, sempre circospetto, era un singolo militare; seguendone però gli sguardi si capiva che agivano in piccoli gruppi, che assistevano il commilitone da prudenziale distanza. Un giorno mi sono stati proposti un pelliccione di volpe e un cane moscovita (bellissimo). Mai armi. Qualcuno diceva di non aver ricevuto la paga da oltre un mese. Al margine delle date ufficiali, la dissoluzione dell’URSS era già cominciata in quell’autunno 1990.

Vladimir Putin ha vissuto in prima persona, anche emotivamente, quel clima di fine del mondo in cui era cresciuto e aveva fatto carriera. L’ha visto frantumarsi, sminuzzato nei mille oggetti in vendita all’anonimo acquirente di passaggio. L’imperiosa grandiosità delle sfilate militari dalla piazza Rossa all’Unter den Linden svilita nel miserevole contrabbando di reclute in uscita clandestina dalle caserme. Più d’uno dei suoi biografi fa cominciare in quel periodo la sua ambizione a un ruolo di riscatto patriottico. Lui era di stanza a Dresda, delegato del KGB. Ebbi occasione di domandare sue notizie a Markus Wolf, per 40 anni capo dello spionaggio estero della RDT, con il quale a Berlino eravamo diventati amici di ristorante. Rispose di non averlo mai conosciuto. Vuol dire che nello spionaggio sovietico non era un uomo di prima fila.

Si ricorda tuttavia di lui che fosse un funzionario diligente, sempre presente ai corsi di aggiornamento tecnico e ideologici, buon udito e dottrina rigorosa. Con un’apprezzabile preparazione militare. Pertanto egli sa benissimo che “la guerra non soltanto è un atto politico, bensì un suo concreto strumento”, come spiega Carl Von Clausewitz (1780-1831). L’ha certamente appreso a memoria e ripetuto molte volte a se stesso e agli uomini della cerchia di potere al Cremlino. Probabilmente, avendo una buona conoscenza del tedesco (così assicura Angela Merkel), lo ha studiato nella lingua originale: “Vom Kriege”, (Vajnà, in russo). La più classica ancorchè incompiuta indagine sulla scienza della guerra, opera magna del famoso generale prussiano, un hegeliano moderato (e in quanto tale non amato nella Berlino imperiale).

Era un testo obbligatorio nelle accademie militari sovietiche e lo è rimasto in quelle della Federazione Russa. Putin dev’essere consapevole che l’accerchiamento NATO e il carattere conservatore del governo di Kiev costituiscono per la Federazione fattori di allarme. Tuttavia insufficienti a giustificare una guerra d’invasione, discutibile anche in termini di stretta funzionalità. Se “la guerra è una continuazione della politica con altri mezzi”, diventa logico e necessario anche il rovescio: una lettura politica degli svolgimenti militari, per tentare di prevederne gli esiti complessivi. In Ucraina questi vengono riconfigurati da quelli, basta osservare la continuità di strategia imperiale dagli zar allo stalinismo e a Putin. E puntano a un espansionismo che solo strumentalmente pretende proteggere le popolazioni russofone oltre confine.

La speciale efferatezza dell’Operazione Speciale (in questo senso la denominazione ufficiale imposta, non appare più soltanto un camuffamento semantico) vuol essere il cannone capace di frantumare l’immaginario nemico, fiaccarne la volontà dopo averne negato l’identità (“l’Ucraina è Russia”). E’ un gioco di specchi, ma proprio attraverso l’esame dei mezzi si giunge alla sua corrispondenza con l’attuale realtà dei fatti. Scatenata dichiaratamente per “denazificare” l’Ucraina, quindi con una motivazione ideologica, Putin non combatte una guerra propriamente di sterminio (come i nazisti nel 1939-45 in tutta l’Europa orientale e specialmente nei paesi slavi). Ma neppure sfugge alle nefande violazioni d’ogni diritto umano dei metodi di conquista e occupazione sostitutiva di territori. Il terrorismo come arma di guerra non è del resto una novità per nessuno.

È evidente, dopo 45 giorni d’invasione, che sebbene se ne abbia ancora una conoscenza incompleta, la frequenza e l’estensione di deportazioni di cittadini ucraini in Russia e comunque lontano dai loro luoghi di residenza corrisponde a un disegno prestabilito, non nuovo al potere di Mosca. Già posto in atto prima ancora dell’Impero dai principi russi così come dai loro nemici e mai più abbandonato. Fin dal 1200 i territori tra l’attuale Polonia e i paesi baltici sono stati disputati di volta in volta con i medesimi sistemi dai cavalieri teutonici, dagli svedesi e dai russi di Aleksandr Nevskij, il quale ultimo per averlo fatto innalzando i vessilli cristiani è stato poi trasformato in una sacra icona. I russi lo hanno perpetuato. Ne è ulteriore prova la memoria di terrore che ne conservano i popoli limitrofi e della loro strenua volontà a resistergli, come gli ucraini confermano.

Tedeschi del Volga, ebrei, uzbechi, tagiki, ceceni, polacchi, tatari, tutte vittime testimoniali del nazionalismo etnico e della geografia politica, sono stati ricordati perfino in qualche ormai remoto documentario televisivo del russo Piervij Kanal. Fin dall’antichità, poi nella formazione degli stati nazionali moderni, lo scontro di opposte ragioni storiche (pensiamo a Israele e alla tragedia palestinese), la riformulazione di frontiere, hanno determinato spostamenti coatti di popolazioni, diaspore, annessioni di territori, producendo sempre immani sofferenze quando non massacri. Gli zar ne hanno fatto un metodo al servizio della loro strategia espansionista. Putin è un prodotto di questa storia di arretratezze, burocratizzazioni e dispotismi, solo raramente interrotta da tentativi di riscatto e integrazione all’Occidente. Falliti non sempre per responsabilità esclusiva dei russi (ultime, le promesse mancate di Bush sr. a Gorbachov a fronte della riunificazione tedesca sono arcinote).

La straziante disumanità del carattere ideologico di occupazioni, deportazioni e ripopolamenti non può essere certo sminuita dagli eccidi e genocidi praticati con colonialismi antichi, vecchi e nuovi dagli imperi occidentali, dalle Americhe all’Africa e all’Asia, nei millenni e fino a oggi, attraverso diversi processi e misure. Il tempo non riesce a cancellare negli uomini sete di conquista e guerre di aggressione. Ci ammonisce però a combattere e prevenire la violenza primitiva del cieco istinto, i rischi dei calcoli probabilistici militari e per ultimo la predeterminazione della ragione politica: le tre forze che secondo Clausewitz presiedono sempre l’atto di guerra. Che solo la massima partecipazione popolare alle istituzioni democratiche può limitare e impedire. Ed ha trovato invece nuova linfa nella scelta autocratica che questa partecipazione nega incarcerandola, e da cui origina la barbarie del putinismo.

Nell’attuale stallo militare sui campi di battaglia, si può dunque vedere già compiuta una secca sconfitta politica per Putin e il suo governo, ben oltre la mancata conquista di Kiev e il generale ripudio per le atrocità attribuite a parte delle loro truppe combattenti non esclusivamente a Bucha, che ne diviene il sacrario. Prematuro dire se questa loro sconfitta segni una vittoria per la democrazia in Ucraina (e in Europa). Non è infatti del tutto chiaro cosa sia accaduto delle precedenti, laceranti tensioni politiche interne che avevano determinato nel paese risse elettorali, tumulti di piazza ed episodi di guerra civile ancor prima che esplodesse il conflitto nelle due provincie filorusse del Donbass. È possibile, di sicuro verosimile che vi fosse fin da allora la mano più o meno occulta del Cremlino (come dimenticare la formazione di Putin nel KGB). Ma le contraddizioni sociali c’erano e restano.

Geopolitica (vasta due volte l’Italia, situata alla frontiera tra occidente e oriente europei), popolazione (44 milioni di abitanti), economia (esportatrice di materie prime alimentari e minerarie; importatrice di manufatti, come del resto la stessa Russia), fanno dell’Ucraina un paese-chiave del nostro continente. Con l’indipendenza seguita al disfacimento dell’URSS, così come in Russia, della sua economia si sono appropriati un centinaio di alti burocrati e manager di partito, divenuti in tal modo miliardari da un giorno all’altro. Reinvestendo i loro capitali solo in minima parte nel paese. Per operare soprattutto nella grande finanza internazionale, a partire dalla City londinese. Ed è nella capitale britannica dove quasi tutti sono andati a rifugiarsi alla vigilia della guerra, accompagnati dalle rispettive famiglie e consigli di amministrazione. Come hanno informato i media inglesi, sottolineando l’improvvisa moltiplicazione dei voli privati Kiev-Londra.

L’insufficienza degli investimenti interni non hanno permesso un adeguamento tecnologico di agricoltura e industria tale da renderle internazionalmente competitive. Così che la ricchezza complessiva prodotta è minore della metà di quella italiana. Inflazione, periodica fuga dei capitali e instabilità politica aggiungono ulteriori motivi di disagio sociale. Sul quale manca un dibattito pubblico pienamente illustrativo, tant’è che l’Ucraina è agli ultimi posti delle graduatorie internazionali tanto per la trasparenza amministrativa quanto per la libertà di stampa. È del resto con un programma generico, essenzialmente caratterizzato da promesse di democrazia diretta e lotta alla diffusissima corruzione, che Volodymyr Zelensky è stato eletto presidente da una maggioranza che decenni di frustrazioni e risentimenti hanno spinto vieppiù verso il populismo nazionalista. E la determinazione fin qui mostrata nella conduzione della guerra di resistenza gli ha fatto superare la dimensione politica per trasformarlo in una figura eroica.

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