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Giorgetti

Chi tiene la barra dritta in Italia contro chi putineggia

Parole e decisioni di Mattarella e Draghi su Russia e dintorni. I Graffi di Damato

 

Più guardo le immagini della campagna elettorale in corso in Italia – intere come quelle che comprendono sul palco del meeting di Rimini anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e tagliate come quelle senza di lui – e più leggo cronache, dichiarazioni e quant’altro di protagonisti, attori e comparse di questa corsa estiva al voto, più mi consolo vedendo e ascoltando dell’altro. In particolare, gustandomi le immagini e le cronache della cosiddetta “amministrazione degli affari correnti” felicemente affidata dal presidente della Repubblica al governo di Mario Draghi. Che, grazie a Dio, continua a salvare la faccia del Paese compromessa -scusatemi la franchezza- dai partiti con le loro risse ad horas, spesso all’interno degli stessi schieramenti improvvisati o confermati per trarre il maggiore vantaggio possibile, nella spartizione del bottino parlamentare, dalla legge elettorale di turno.

Proprio a Rimini, da dove sono partito riferendomi a quella che Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano ha definito “l’ammucchiata dei mercanti del tempio ciellino” per il mancato invito a quello statista d’eccezione che lui continua a considerare Giuseppe Conte; proprio a Rimini, dicevo, tra palco e sottopalco, dentro e fuori, a passo svelto o lento, Matteo Salvini ha riproposto i suoi dubbi, a dir poco, sull’utilità delle sanzioni alla Russia per la guerra di aggressione all’Ucraina. E pazienza, anzi fortuna che sul palco la sua vicina di posto e alleata, ora aspirante a Palazzo Chigi con qualche possibilità di riuscita, si sia invece ritrovata d’accordo col segretario del Pd Enrico Letta, sedutole accanto a sinistra, sulla linea fortemente atlantista, e sanzionatoria, praticata dall’Italia con una risoluzione parlamentare che i critici non hanno avuto i numeri e neppure il tempo di rovesciare, o solo ammaccare, prima della interruzione della legislatura.

Forse ha ragione, per carità, il mio amico e due volte ex direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli a scrivere oggi nel suo editoriale che il clima delle nostra campagna elettorale addirittura “piace a Mosca” per lo spazio che qualcuno, sempre a Mosca, ha visto aprirsi a favore di Putin e della sua guerra tra i fumi dei partiti e movimenti italiani. Ma Paolo mi perdonerà se, meno pessimisticamente di lui, io preferisco scommettere sulla felice coincidenza tra due notizie di quella ho definito amministrazione degli affari correnti.

Una, cui dò la precedenza perché proveniente dal Quirinale e attinente le competenze del Capo dello Stato, è la revoca di dieci onorificenze concesse dalla Repubblica d’Italia a russi che non le hanno più meritate quando hanno condiviso o persino partecipato a loro modo, non necessariamente armato, all’aggressione all’Ucraina. Mi direte che il gesto è più simbolico che altro, ma non sono d’accordo, anche perché non è il primo adottato dal Presidente della Repubblica. Che non a caso, del resto, proprio qualche giorno fa ha voluto ribadire il carattere “scellerato” dell’azione che la Russia sta continuando ad esercitare contro il libero paese confinante.

L’altra notizia è la partecipazione del presidente del Consiglio Mario Draghi, pur da remoto in questi tempi di perdurante pandemia, alla Conferenza per la Crimea nel 31.mo anniversario dell’indipendenza dell’Ucraina, e sesto mese della guerra scatenata contro di essa dalla Russia. Questa ancora in corso e, prima ancora, l’annessione della Crimea, deplorata anche da Erdogan, sono cose inaccettabili, di fronte alle quali -ha detto Draghi- “il mondo non può voltare la testa”.

E pensare che fra i primi a correre in Crimea per complimentarsi con Putin fu nel 2015 il fortunatamente già ex presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, amico personale dello stesso Putin. Uno degli incontri avvenne su una nave affondata in questa guerra dagli ucraini grazie anche agli aiuti occidentali.

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