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Javier Milei

Perché delude il pensiero di Vargas Llosa sulla crisi in Perù

Cosa ha scritto, sorprendentemente, Mario Vargas Llosa sulla crisi del Perù. L'articolo di Livio Zanotti, autore de Ildiavolononmuoremai.

Da due mesi il Perù subisce una cruenta emergenza politica, tracimata in una protesta popolare che malgrado le repressioni – 58 morti e innumerevoli feriti – ha raggiunto Lima restandovi accampata e in tumulto: “campo di Marte” di un’ennesima agonia del mitico paese andino.

LA MOSSA DI CASTILLO

Segue al fallito gesto di forza del capo dello stato, il maestro rurale Pedro Castillo, eletto un anno e mezzo fa con un esile vantaggio su Keiko Fujimori, che del padre, l’ex dittatore Alberto, rivendica anche i crimini infamanti per cui sta in carcere.

Castillo l’accusa di manipolare il Congresso per impedirgli di governare e per disarmarla ha tentato incautamente di dissolverlo. Ma la maggioranza dei 17 partiti in cui è frantumato ha reagito facendolo arrestare. Da allora la sua base politica – minoritaria ma tutt’altro che inconsistente (piccoli coltivatori e artigiani, indios, borghesia amministrativa minima dell’interno e studenti delle città) -, pretende le dimissioni della sua ex vice, Dina Boluarte, passata con gli avversari per sostituirlo alla Presidenza, e pronte elezioni.

ÉLITE BIANCA, BORGHESIA E MASSE INDIGENE

L’avventatezza di Castillo ha strappato ancora una volta lo sfibrato ordine istituzionale che a malapena conteneva la storica frattura sociale del paese: l’élite bianca, ricca e istruita da una parte, le masse indigene e indigenti dall’altra, con le varie fasce borghesi urbane nel mezzo, in periodica oscillazione tra i due opposti. È la morfologia che caratterizza le società di sviluppo incompiuto, il disequilibrio che ne rende franoso il sistema istituzionale con conseguenze periodicamente sanguinose. Il dramma storico di quello che per la Spagna dei reali di Castilla e Aragona fu l’Eldorado. E a tutt’oggi è una terra ricca di risorse naturali, in una posizione strategica per i commerci con l’Asia. Tanto che nello spregiudicato e funesto avventurismo delle sue presidenze, Fujimori padre tentò anche di farne un socio in affari del Giappone. Allarmando oltre misura gli Stati Uniti, che solo allora decisero di non poter più tollerare le sue ostilità. Risulta stupefacente che tanta sofferta complessità venga riassunta semplicisticamente da un uomo di cultura anche storica come Mario Vargas Llosa.

IL PERÙ HA UN PROBLEMA DI CORRUZIONE

Sono ben sei i capi di stato peruviani processati e condannati per corruzione negli ultimi vent’anni. Uno, Alejandro Toledo (2001-2006), un indio di precoce ingegno divenuto brillante economista negli Stati Uniti, l’ho accompagnato in alcuni viaggi elettorali. Seduto accanto a lui in aereo, ho ascoltato ripetutamente il suo impegno solenne all’onestà con cui avrebbe combattuto la corrotta eredità del predecessore e nemico Alberto Fujimori. Da anni è rifugiato negli Stati Uniti in libertà sotto cauzione.

Ho parlato più di una volta con Alan Garcia, certamente l’ultimo leader prestigioso del populismo progressista peruviano (APRA). Si è sparato nell’aprile 2019 per sottrarsi al disonore di essere arrestato. Tribunali della Repubblica li hanno riconosciuti entrambi colpevoli di aver ricevuto decine di milioni di dollari in cambio di lucrosi appalti pubblici. Al pari di Ollanta Humala, Kuczynski, Vizcarra, vertici di amministrazioni sotto ogni punto di vista rovinose per il Perù, la cui economia regge anche grazie alle rimesse di milioni di miseri emigranti, che mai nessuno ricorda (né – tanto meno – ringrazia).

IL PENSIERO SORPRENDENTE DI VARGAS LLOSA

Sorprendentemente, in questo dramma infinito del suo paese, Vargas Llosa vede soltanto “la piccola cospirazione dei presidenti eletti di Messico, Argentina, Bolivia, Cile, Honduras e Colombia per provocare un colpo di stato che avrebbe voluto porre fine alla democrazia peruviana” (El Pais, 05.02.23).

Davvero non sento la minor intenzione polemica verso uno dei più grandi romanzieri viventi (del quale mi ritengo inoltre personalmente debitore di alcune delle più istruttive e godevoli letture della mia vita); solo esprimo stupore. Quasi non fosse lui ad aver con assoluta spietatezza per sé e per gli altri scrutato l’anima e il ventre del Perù, a cominciare dalla istituzione primaria d’ogni società, la famiglia (Conversaciòn en la Catedral, La Ciudad y los perros). I suoi vizi segreti, inconfessabili e con questi, quelli d’ogni potere più o meno crudelmente dispotico (La Fiesta del chivo). Denunciando così un processo di abiezione con cui per decenni hanno dovuto misurarsi intere popolazioni. Nonché le menzogne e gli inganni indirettamente favoriti nei decenni dalla guerra fredda, dunque tra i prezzi che tutti le abbiamo pagato.

Sorpresa e stupore non proteggono dal rischio di decontestualizzare gli argomenti di Vargas Llosa. Il suo articolo è però reperibilissimo, chiunque può leggerlo e verificare. Del resto è sempre El Pais (la grande informazione del resto d’Europa non dedica molta attenzione alle vicende latinoamericane e all’attualità peruviana ancor meno) che pubblica puntualmente cronaca e commenti al balletto intrapreso dall’attuale governo e dal Congresso di Lima attorno alla data in cui lasciare che gli elettori tornino alle urne. Mentre la protesta di piazza continua così come la repressione poliziesca.

Nondimeno la “verità” peruviana a Vargas Llosa appare “molto semplice”: Castillo è un inconcludente che ha tentato un golpe, e fin qui certi fatti (non tutti) concordano; assai meno evidente è la presunta controprova, che lo scrittore giudica invece inconfutabile nella proclamata intenzione dell’ex presidente Castillo di privilegiare la difesa dell’ambiente peruviano sugli immediati vantaggi economici dello sfruttamento minerario. È la linea “verde” che oggi prevale nettamente tra i massimi dirigenti latinoamericani (e non solo); e che nell’opinione di Vargas Llosa da un’idea delle loro “qualità intellettuali”. Lui preferisce le corride e i tori infilzati nell’arena.

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