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Orban

Perché Polonia e Ungheria borbottano sulle condizioni del Recovery Fund

Polonia e Ungheria non accettano che il Recovery Fund imponga il rispetto dei diritti Lgbt. Strano scoprirlo solo ora, scrive Tino Oldani per Italia Oggi

Tra le condizionalità del Recovery Fund non vi è solo quella che prevede la concessione di sussidi in cambio di riforme, ma anche lo scambio tra i miliardi Ue e il rispetto dello stato di diritto. La prima condizionalità, la più nota, sembra studiata apposta per l’Italia. La seconda, finora molto sottovalutata forse perché è la prima volta che in Europa si scambiano miliardi e diritti, è stata invece pretesa da alcuni paesi del Nord Europa, Olanda in testa, che sono in aperta polemica con due paesi del gruppo di Visegrad: Polonia e Ungheria. Alla Polonia, stando alle critiche olandesi condivise dall’euroburocrazia di Bruxelles, viene rimproverato un uso politico della giustizia, mentre all’Ungheria si contesta anche una politica repressiva dei media.
Ma non è tutto. Nella formula «stato di diritto» sono compresi anche altri diritti civili, riconosciuti da tempo nei paesi del Nord, ma non in Polonia e in Ungheria, quali sono i diritti sessuali delle comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender). C’è dunque da chiedersi se questa condizionalità, il rispetto latu sensu dello stato di diritto, che è politicamente corretta, sia stata pensata ad arte proprio per rendere molto complicata l’approvazione del Recovery Fund, che per diventare esecutivo esige prima il disco verde del Parlamento Ue, poi quello dei 27 parlamenti nazionali dei paesi Ue.

Polonia e Ungheria hanno già alzato il disco rosso. E lo scambio tra i miliardi Ue e lo stato di diritto è diventato un caso politico di difficile soluzione, tanto che perfino la mediazione tentata da Angela Merkel pochi giorni fa è stata respinta dai paesi frugali del Nord, i quali dietro le involute frasi diplomatiche dell’emendamento proposto hanno intravisto una possibile scappatoia per l’Ungheria di Viktor Orbàn, dove alcuni diritti Lgbt sono stati cancellati nel maggio scorso, con il divieto di cambiare genere sui documenti anche dopo un’operazione per il cambio di sesso.

A sentire gli sherpa, nella mediazione non c’erano, invece, concessioni per la Polonia. Una chiusura che Le Monde ha giustificato con un ampio réportage sui partiti di destra che governano la Polonia e sul loro operato proprio nel campo dei diritti sessuali. Firmato da Romain Su, l’articolo ruota intorno alla figura di Jaroslaw Kaczynsky, considerato l’uomo politico più potente in Polonia, anche se non ricopre nessuna carica di primo piano, tranne quelle di semplice deputato e di presidente del partito di maggioranza, Diritto e giustizia (Pis), di matrice cattolica conservatrice. Formazione che nel Parlamento Ue fa parte dell’Alleanza dei conservatori e riformisti europei, partito di cui è stata appena nominata presidente Giorgia Meloni.

In passato, fino al 2007, Kaczynsky è stato premier, ma a seguito di una sconfitta elettorale dovette dimettersi, e scelse di agire dietro le quinte. Ruolo che, per giudizio unanime, svolge tuttora come influente consigliere del premier Mateusz Morawiecki, suo delfino, che ha vinto le ultime elezioni. Il premier, sostiene Le Monde, non ha però il carisma e l’autorevolezza di Kaczynsky, ed è spesso preso di mira dal ministro della Giustizia, Zbigniew Ziobro, che lo accusa di eccessiva debolezza sul terreno dei diritti civili, proprio quelli su cui pende il giudizio opposto dell’Olanda, da sempre il paese europeo più aperto alle comunità Lgbt.

Il ministro Ziobro, fino al 2011, faceva parte del Pis di Kaczynsky. Poi però è stato espulso e ha fondato un movimento di estrema destra, Polonia solidale (Sp), che è alleata del Pis nel governo. Un alleato scomodo, racconta Le Monde, che ha mosso una serie di critiche piuttosto pesanti al premier. Per esempio, Ziobro voleva che il governo mettesse un veto assoluto e irrevocabile sul nuovo bilancio Ue 2021-27 e sul Recovery Fund proprio per la clausola sullo stato di diritto. Inoltre ha fatto fuoco e fiamme perché Varsavia si ritiri dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ribadendo in ogni occasione i caposaldi del suo partito: è contrario ai matrimoni gay, e ha promesso fondi pubblici ai Comuni polacchi che adotteranno «risoluzioni contro l’ideologia Lgbt», trovando un discreto seguito nei Comuni rurali.

A queste richieste, finora il premier Morawiecki e Kaczynsky non hanno dato corda. E Ziobro li ha accusati di «deriva centrista», convinto di guadagnare voti in un paese profondamente cattolico e conservatore, e nello stesso tempo certo che il governo ha bisogno del suo appoggio in parlamento. Per questo, sostiene Le Monde, perfino i partiti liberali di opposizione stanno facendo pressioni su Kaczynszky perché torni alla guida del governo e metta a cuccia il ministro della Giustizia. Resta comunque il fatto che in Polonia i diritti Lgbt non sono riconosciuti dal governo, tantomeno dai Comuni rurali, mentre le manifestazioni di piazza a favore di tali diritti sono represse con l’arresto degli attivisti, come è avvenuto in agosto a Varsavia.

(Estratto di un articolo pubblicato su Italia Oggi; qui l’articolo integrale)

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