Possiamo agevolmente risalire al pregevole volume “La società scientifica” di Saverio Avveduto (edizioni Etas Kompass, 1968) per inquadrare il tema della ricerca nel contesto culturale, antropologico e istituzionale di una società italiana in rapida e profonda trasformazione.
L’autore di questa opera – che all’epoca rappresentava una significativa novità sul piano epistemologico e scientifico, ma anche nel contesto delle tematiche formative di cui iniziava a occuparsi l’allora ministero della Pubblica Istruzione di cui era direttore generale, prima per l’educazione popolare e poi per gli scambi culturali – insegnò dal 1966 al 1996 Sociologia dell’educazione all’Università La Sapienza di Roma, contribuendo a sistematizzare i contenuti metodologici e didattici di questa nuova disciplina emergente.
La lettura di questo saggio è fondamentale per comprendere come mai il tema della ricerca, studiato in forma sistematica e introducendo per la prima volta nei compiti di cui il ministero si occupava la logica dell’analisi comparativa tra il nostro sistema scolastico e quello degli altri Paesi, fosse un argomento di pertinenza dell’ambito formativo e dell’istruzione. Ma questo spiega anche come in quel contesto istituzionale la tematica della ricerca e dell’istruzione universitaria spingeva per muoversi in uno spazio autonomo, slegato dall’ordinamento per ordini e gradi di studi che andava dalla scuola materna statale (istituita proprio nel 1968 dal Governo Moro) fino alla scuola media superiore. Per questo il ministero della Pubblica istruzione divenne MIUR (l’acronimo sta per ministero Istruzione, Università e Ricerca) per poi dividersi in due dicasteri separati, per poi ricompattarsi e infine dividersi di nuovo, come è attualmente.
Il tema della ricerca – nella duplice forma di ricerca pura e applicata – era centrale nell’analisi di Avveduto ed evidenziava il ‘gap’ sempre più divaricato e quasi incolmabile tra il sistema formativo italiano ed europeo e quello americano: la sottostima dell’importanza della ricerca da noi e in parte nel resto del nostro continente si evidenziava a fronte della sua centralità nelle scuole e soprattutto nelle università americane, fino a diventare un formidabile vettore di sviluppo sul piano scientifico, dell’innovazione, tecnologico e finanche del progresso in senso lato, riverberandosi nella società civile degli Usa. Ancora oggi peraltro il brain drain, cioè la ‘fuga di cervelli’ verso il mondo americano in particolare, è un fenomeno socialmente rilevante a livello universitario, dei master e delle opportunità lavorative ad alto livello di conoscenza e di know how.
Negli Usa la formazione riguarda il sapere ma soprattutto il saper fare.
I nostri ‘decreti delegati’ del 1974 legittimarono il tema della ricerca come un ambito di pertinenza formativa, tanto che fu legato all’area della sperimentazione didattica, sempre all’interno dell’ottica del sistema scolastico e solo per iniziativa dei singoli Atenei esteso al mondo delle università.
La ricerca era focus pedagogico: questo spiega il successivo proliferare persino pletorico di istituti ed enti sulla cui concreta utilità converrebbe interrogarsi a ritroso: Biblioteca di documentazione pedagogica, IRRSAE (istituti regionali di ricerca educativa), INVALSI, INDIRE ecc. Istituzioni spesso autoreferenziali che non sempre hanno contribuito a migliorare la qualità del pubblico servizio scolastico, più di quanto abbiano invece implementato una certa “autonomia a latere” del sistema formativo.
Nel frattempo le nostre università hanno prodotto ricerca e innovazione soprattutto per merito dell’autorevolezza e della competenza dei propri cattedratici, specie in ambito scientifico: sarebbe interessante chiedere al Premio Nobel Giorgio Parisi – uno per tutti – quanto sia stato di sprone per le sue scoperte nel campo della fisica l’insegnamento e le metodiche universitarie, quanto la propria intuizione, quanto il tempo dedicato alla personale ricerca e alla continua sperimentazione, quanto una genialità che ha trovato spazio e ascolto, con autorevolezza.
Oggi appare decisamente superata una concezione solo pedagogico-scolastica della ricerca. Essa va infatti applicata in una società aperta dove temi come la salute, la sicurezza sociale, il lavoro, la produttività delle imprese, l’ambiente, le fonti energetiche, i trasporti, la logistica, la demografia, la sostenibilità generazionale, la comunicazione postulano uno stretto legame tra studio e sue ricadute operative. La società complessa e post-moderna, le sue potenzialità e le sue criticità, necessitano di investimenti nell’ambito della ricerca pura e di quella applicata. È un vecchio sogno di Giuseppe De Rita e del CENSIS quello di un legame più stretto tra scuola e mondo del lavoro. Ma proprio un’analisi comparativa di come il tema viene impostato nei Paesi più evoluti, richiede uno step successivo.
Per questo – ma sarebbe il caso di farne oggetto di programmazione politico-istituzionale – l’area della ricerca va oltre l’ambito per lungo tempo affidato al MIUR e poi ancillare al ministero dell’Università.
Occorre una visione nuova che estenda il senso del fare ricerca a una pluralità di soggetti, enti, istituzioni, imprese in un’ottica di ‘rete’ e di ‘sistema’, per la promozione del bene comune e l’ottimizzazione delle risorse umane e materiali.
Per far questo è necessario svincolare la ricerca dall’ambito strettamente scolastico: intruppata e sottostimata come sub-argomento dell’istruzione-formazione, essa si identifica in una concezione riduttiva con potenzialità limitate.
Occorre un ministero che se ne occupi miratamente e con obiettivi programmabili, con il sostegno della scienza e un rigido codice etico, una visione che abbracci orizzonti più ampi e con prospettive concrete e tangibili, attribuzioni di promozione, guida, facilitazione, mettendo sempre la “persona” al centro dei propri interessi e dei compiti da perseguire, con la consapevolezza che l’umanità deve oggi, non domani, affrontare sfide decisive per il proprio futuro.