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Perché Meloni e Mantovano non si sono meravigliati troppo della decisione della giudice Albano

Le emblematiche parole del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, prima della decisione della giudice Silvia Albano. Il punto di Damato

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano con le sue antenne di magistrato di lungo corso, di politico di opposizione e di governo, ora ben addentro anche ai servizi segreti già sfiorati quando fu sottosegretario al Ministero dell’Interno in due governi di Silvio Berlusconi, non è stato certamente colto di sorpresa dal decreto giudiziario col quale la giudice Silvia Albano ha svuotato i centri appena appena aperti in Albania e disposto il trasferimento in Italia dei dodici ospiti rimastivi per poco, dei sedici complessivamente sbarcati. E di conseguenza, per quanto irritata, furente e com’altro l’hanno definita i giornali, neppure la premier Giorgia Meloni è caduta dalle nuvole fra il Libano e la Giordania dove è stata raggiunta dalla notizia di quello che La Stampa ha definito “naufragio Albania”.

Già una settimana fa, il 12 ottobre, quando ancora le strutture italiane in Albania erano un cantiere, sia pure arrivato alle rifiniture, Mantovano diceva al Foglio, a proposito della “impressione” ricavata alle prese con una “magistratura ideologizzata” in rotta di collisione col governo: “Non è tanto un’impressione, è una constatazione. Quando, per esempio, nella disciplina dei migranti un giudice dice e scrive nei provvedimenti che deve essere il giudice l’arbitro della decisione dei paesi cosiddetti sicuri, cioè dei paesi verso i quali può avvenire il rimpatrio dei migranti pervenuti illegalmente, mi pare che sia un’entrata a piedi uniti in un’area che non è la propria, perché la determinazione dei paesi sicuri viene fuori da un procedimento abbastanza complesso che spetta al governo. E’ un esempio fra i tanti. Ce ne potrebbero essere altri”.

E’ esattamente ciò che è avvenuto col decreto giudiziario della giudice di Roma che temo finirà per essere chiamata ironicamente ma non troppo quella dell’incredulo, sprezzante “sicuro d’Egitto”, avendo trovato quel paese non abbastanza sicuro, appunto, per potervi rimandare gli egiziani, fra quei dodici, finiti in Albania per il disbrigo delle loro pratiche di migranti clandestini.

Chissà se il nuovo, l’ennesimo conflitto esploso fra la giustizia e la politica -entrambe, per cortesia, con la minuscola, come poi vi spiegherò- servirà a dipanare una matassa aggrovigliatasi una trentina d’anni fa, quando la prima prevalse bruscamente sulla seconda nell’onda di “Mani pulite”. E delle piazze che applaudivano la ghigliottina allestita per decapitare la cosiddetta prima Repubblica.

Francamente ne dubito, anche se il Consiglio dei Ministri già annunciato dalla premier provvederà a rendere più stringente la competenza del governo nella individuazione dei paesi sicuri per il rimpatrio. E ad aprire le porte dei ricorsi contro le decisioni giudiziarie, come ha spiegato Mario Sechi l’altra sera a Otto e mezzo di Lilli Gruber, anche alla Corte Costituzionale per conflitto di competenza, e non solo ai gradi superiori della giurisdizione ordinaria.

Ne dubito perché temo che la politica, ridotta al minuscolo cui ho accennato prima in un inciso, non sarà mai unita nella difesa delle sue prerogative, cioè del ruolo primario assegnatole da costituenti di pur opposta opinione, ideologia e altro ancora come Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, e via scendendo di statura.

La magistratura debordante, invasiva, “ideologizzata” per ripetere l’aggettivo usato dal Foglio intervistando Alfredo Mantovano, continuerà chissà per quanto tempo ancora a trovare nell’opposizione di turno una sponda quando entra in collisione col governo. La giudice di Roma che ha appena liberato i dodici migranti finiti nella struttura italiana in Albania è già stata issata metaforicamente sull’altare dalle opposizioni al governo Meloni. Negli anni di Berlusconi a Palazzo Chigi ci fu addirittura una parte della sua maggioranza, quella facente capo all’allora presidente della Camera Gianfranco Fini, che praticamente fece da scudo ai magistrati mobilitati contro il presidente del Consiglio.

Per la lunga pratica esondativa che le è stata permessa, scomodando spesso a torto la Costituzione, e con i presidenti della Repubblica abitualmente corsi ai congressi dell’associazione delle toghe, che è semplicemente un sindacato, non un’istituzione, una certa magistratura autoesoneratasi dall’obbligo della imparzialità o neutralità politica è diventata praticamente la protagonista della scena giudiziaria.

Forse più che sulla forza di una Politica finalmente con la maiuscola, capace all’unisono, fra maggioranza e opposizione, di riprendersi quel che le spetta -e, ripeto. le fu conferito dai costituenti- bisogna scommettere sul cambio generazionale della magistratura. Scommettere cioè sulle giovani leve indisponibili a riconoscersi nel sistema emerso, per esempio, dalla vicenda Palamara e a perpetuarlo, magari in altro modo, meno sfacciato, ma sempre distruttivo di uno Stato davvero di diritto.

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