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Perché l’Italia deve fare pace con la Storia

Facciamo finalmente pace con la nostra Storia grandiosa e gloriosa. Il taccuino di Guiglia.

Sono ben tre, e uno più imponente dell’altro, gli archi di trionfo ancora in piedi nella capitale d’Italia: l’Arco di Tito, l’arco di Settimio Severo e l’arco di Costantino. Secondo gli storici, nell’antica Roma ne sorgevano almeno una trentina. Non male, dunque, dopo duemila anni di Storia vissuta, di saccheggi, di guerre remote e dei “moderni” bombardamenti subiti nel secondo conflitto mondiale, che esista ancora una testimonianza materiale e visiva del periodo probabilmente più studiato e di sicuro reinterpretato dall’intera umanità (si pensi all’americano “Il Gladiatore” come sintesi esemplare della sola e vastissima cinematografia su quell’epoca).

Ancora oggi la parola “Roma”, dove tutte le strade portano, evoca qualcosa di grandioso e di meraviglioso in ogni latitudine del pianeta.

Eppure, quando si parla di “arco di trionfo”, d’istinto il pensiero non va alle memorie uniche e irripetibili dei romani Tito, Settimio Severo e Costantino e al racconto scolpito sulle imprese delle personalità a cui gli archi erano dedicati. Il pensiero corre veloce verso Parigi. Se anche su google si scrive e si ricerca “arco di trionfo”, la prima immagine che comparirà, sarà il monumento-simbolo del patriottismo francese commissionato da Napoleone, che proprio all’antica Roma si ispirava.

Dunque, si può dire che, nel mondo, la fotocopia sia diventata più famosa dell’originale a cui pure essa s’è richiamata esplicitamente e con orgoglio, se si considera quanto Napoleone -e non soltanto lui, peraltro- amasse e ammirasse la Roma dei secoli antecedenti.

Restiamo in Francia e sempre nella capitale dove, non lontano dall’“Arc de Triomphe” svetta la “Tour Eiffel”.

E chi non l’ha visitata. Completata alla fine dell’Ottocento alla vigilia dell’Esposizione universale, è un’opera colossale che testimonia il nuovo della “Belle Époque”. Ma, in verità, è solo un ammasso di ferro.

Eppure, i francesi sono stati capaci, così come nel saper “vendere” all’universo la trionfale fotocopia meglio degli originali, nel trasformare l’anonima torre in un “capolavoro di metallo”. Ma per quanto capolavoro, e si può discutere, il metallo resta metallo. Indiscutibilmente.

Riconosciamolo e impariamo: la Francia è più brava di noi, e forse di tutti, nel saper valorizzare anche la propria modestia, caratteristica, peraltro, di cui i nostri cugini d’Oltralpe non soffrono, vivendo nel surreale della loro spesso sovrastimata e talvolta persino comica “grandeur”.

Ma ci si domanda perché il Paese del Colosseo e della Torre di Pisa, del David di Michelangelo e dei Mosaici di Ravenna, del Duomo di Milano e della Cappella Sistina, di Venezia e di Napoli, del Duomo di Monreale e dei Templi di Segesta e di Selinunte, dei Castelli altoatesini, cioè di un’infinità e diversità di meraviglie che non sono fatte di metallo, non riesca a “vendere” così bene come i francesi il suo patrimonio universale che si vende addirittura da sé.

In Italia c’è quasi il timore di sottolineare che siamo il Paese più bello del mondo, e non perché ce lo diciamo da soli: sono gli altri, sono i visitatori d’ogni continente perennemente innamorati dell’Italia a riconoscerlo e a ripetercelo. E poi è vero, è semplicemente vero.

Altro che esuberanti. In realtà, noi italiani siamo timidi. Abbiamo paura di ricordare che siamo l’unica Nazione del pianeta a essere stata per ben tre volte, e in tre periodi così diversi e lontani fra loro, al centro del mondo: Roma antica, Rinascimento, Risorgimento.

Facciamo finalmente pace con la nostra Storia grandiosa e gloriosa.

Ma sì, se i francesi coltivano la “grandeur” per un ammasso di ferro, noi possiamo felicemente e serenamente riconoscerci nella grandezza, e non solo nella bellezza, di cui siamo figli dei figli.

(Pubblicato sul quotidiano Alto Adige)
www.federicoguiglia.com

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